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Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Pietro Vincenzo Giurlani (Firenze, 2 febbraio 1885 – Roma, 17 agosto 1974), è stato uno scrittore e poeta italiano, uno dei padri delle avanguardie storiche.
Inizialmente firmò le sue opere col suo vero nome, e dal 1905 adottò come pseudonimo il cognome della nonna materna, appunto Palazzeschi. Dalla seconda attività conseguì una ricca produzione letteraria che gli diede fama di rango nazionale.
Nacque da Alberto Giurlani e Amalia Martinelli in via Guicciardini a Firenze; per volontà del padre frequentò gli studi in ragioneria, dedicandosi poi all’arte e alla scrittura. Inizialmente si dedicò alla recitazione: nel 1902 si iscrisse alla regia scuola di recitazione “Tommaso Salvini”. Nelle compagnie teatrali conobbe anche Gabriellino, figlio di Gabriele D’Annunzio. Fu probabilmente proprio la passione teatrale a far sì che l’artista rinunciasse al suo cognome anagrafico assumendo uno pseudonimo. Infatti, il padre non vedeva di buon occhio il fatto che Palazzeschi si dedicasse alla recitazione, tanto meno se questa attività veniva praticata con il nome di famiglia.
Con il tempo, Palazzeschi si staccò dall’attività teatrale per dedicare il suo lavoro alla poesia. Grazie all’appoggio finanziario della famiglia, fu in grado di pubblicare le sue raccolte a proprie spese. Fu così che nel 1905 pubblicò il primo libro di poesie, I cavalli bianchi, per un editore immaginario, Cesare Blanc (che in realtà era il nome del suo gatto) con una sede immaginaria in via Calimala 2, Firenze. Tra i componimenti spiccano Ara Mara Amara e Il Pappagallo. La raccolta avvicinava Palazzeschi al Crepuscolarismo tanto per lo stile quanto per i contenuti. Il libro fu recensito in modo positivo dal poeta Sergio Corazzini con il quale Palazzeschi iniziò una fitta corrispondenza, fino alla precoce morte del Corazzini avvenuta nel 1907. La recensione non ebbe però un seguito e il libro rimase praticamente sconosciuto.
Dopo circa un anno, alla prima opera seguì Lanterna, che contiene la poesia Comare Coletta. In questa come nella precedente raccolta, i componimenti di Palazzeschi sono oscuri, fiabeschi e ricchi di simboli poco trasparenti. A dispetto della giovane età dell’artista, ricorre ripetutamente nelle poesie il riferimento alla morte, tema che percorre entrambe le raccolte allo stato latente. Altri motivi ricorrenti sono la malattia e la vecchiaia. Il metro è sempre lo stesso: si tratta del trisillabo, dunque di versi ternari, oppure di versi di 6, 9, 12 o più sillabe. La monotonia del ritmo si coniuga perfettamente alla staticità (spaziale e temporale) che caratterizza i due poemi d’esordio del poeta.
Nel 1908 pubblicò, sempre presso l’immaginario editore Cesare Blanc, il suo primo romanzo di stile liberty dal titolo : riflessi, ricco di misticismo e religiosità decadenti per quanto concerne la prima parte, inaspettatamente fondato sul registro comico, della cronaca e del pettegolezzo mondano per quanto riguarda la seconda.
Seguì la terza raccolta Poemi, che avrebbe portato per la prima volta Palazzeschi ad un pubblico più ampio. In questa eterogenea opera ricordiamo Chi sono?, Habel Nasshab, nonché Rio Bo. Rispetto a quanto si poteva osservare nelle prime due raccolte, il tono è stavolta più solare. Alcune delle poesie sono inoltre legate tra di loro da una trama, la quale conferisce ai poemi un certo dinamismo. Il verso ternario ed il senario ecc. sono ancora quelli privilegiati, ma il rigido schema metrico viene per la prima volta spezzato, in quanto ricorrono versi di tutte le lunghezze. Il gioco ritmico sul trisillabo viene ironicamente portato alle estreme conseguenze nella poesia della Fontana malata. Pare che con il tempo l’artista si attenga sempre di meno a canoni formali di qualsiasi natura. Anche se durante la prima produzione letteraria Palazzeschi gradiva il fatto di restare più o meno nell’anonimato, stavolta la raccolta non passerà inosservata.
Il periodo futurista
In seguito alla lettura di Poemi Filippo Tommaso Marinetti rimase entusiasta, convinto della creatività di Palazzeschi e alquanto compiaciuto dell’uso del verso libero:
« I vostri poemi mi hanno vivissimamente interessato per tutto ciò che rivelano in voi di non ancora espresso e di sicuramente originale. Vi è – nel vostro volume – come già nei Cavalli bianchi, un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talora riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova. »
Palazzeschi fu dunque invitato a collaborare alla rivista “Poesia”. Pubblicherà la raccolta di poesie l’Incendiario, dedicato “A F.T. Marinetti anima della nostra fiamma”, preceduto dal Rapporto sulla vittoria futurista di Trieste. Nell’estate il volume viene sequestrato a Trento per gli accesi toni interventisti caratterizzanti la prefazione. Nella raccolta si ritrova lo scherzoso componimento E lasciatemi divertire, dove il poeta si immagina di recitare la poesia davanti ad un pubblico costernato e scandalizzato. L’8 ottobre si reca al Tribunale di Milano dove assiste al processo contro Filippo Tommaso Marinetti, accusato di oltraggio al pudore per il romanzo Mafarka il futurista
Il 1911 è l’anno del romanzo Il codice di Perelà. Nell’autunno del 1912 conobbe Ardengo Soffici e Giovanni Papini, impegnati nella preparazione di una nuova rivista (Lacerba), in polemica con Giuseppe Prezzolini, direttore de La Voce. Seguì il manifesto del Controdolore nel 1914 che era apparso in precedenza su Lacerba. Nel marzo del 1914 raggiunse Papini e Soffici a Parigi. Qui Palazzeschi entrò in contatto con artisti del calibro di Apollinaire, Léger, Modigliani, Max Jacob, Umberto Boccioni e Ungaretti, che gli mostrò alcune sue composizioni. In compagnia di Giovanni Papini si recò presso lo studio del celebre pittore spagnolo Picasso. Con Papini e Prezzolini progettò una nuova rivista puramente lirica e di critica d’arte.
Palazzeschi iniziò dunque a collaborare intensivamente con il movimento futurista recandosi spesso a Milano e ripubblicando le sue poesie grazie all’appoggio ricevuto. È sorprendente il fatto che le antologie di poeti futuristi includessero anche diversi dei primi componimenti di Palazzeschi, che per il loro tono sommesso e statico erano in gran parte incompatibili con i toni vitali e dinamici dei marinettiani (soprattutto per quanto riguarda le poesie dei Cavalli bianchi). Il fatto che i futuristi abbiano spesso chiuso un occhio davanti a tutto ciò non fa che confermare che Palazzeschi aveva le carte in regola per arrivare ad un notevole successo.
In ogni caso, l’interesse di Palazzeschi per il movimento del futurismo non lo portò mai a ricambiare pienamente l’entusiasmo che il gruppo nutriva nei suoi confronti, nonostante fu certamente abbacinato e sconvolto dalla vitalità straordinaria di Marinetti. Il 3 settembre del 1914 si trovò a Roma, in Piazza San Pietro, dove ebbe modo di ascoltare il messaggio di pace del nuovo papa, Benedetto XV. Alla vigilia della grande guerra, i nodi vennero al pettine: Palazzeschi si dichiarò neutrale giudicando retorico l’acceso interventismo che veniva propagandato dal movimento futurista dei marinettiani:
« Mi offrite una guerra che ha per mezzo la morte e per fine la vita, io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita e per fine la morte. »
Al momento della dichiarazione di guerra si riavvicinò alle posizioni dei compagni, consapevole della necessità del conflitto. Esordirà, infatti, su Lacerba del 22 maggio 1915 scrivendo: “Evviva questa guerra!”.
In seguito, si sarebbe dedicato con profitto alla scrittura in prosa. Per quanto riguarda la poesia, alla vigilia della guerra Palazzeschi aveva ormai dato il meglio di sé. Si avvicinò all’ambiente de La Voce di Giuseppe De Robertis e iniziò a collaborare per la rivista.
Richiamo alle armi e gli anni del fascismo
Durante l’estate del 1916, pur essendo stato riformato alla visita militare, venne richiamato il 16 luglio e il 24 agosto alle armi come soldato del genio. Fu per poco tempo al fronte e in seguito di stanza a Firenze, a Roma e a Tivoli. Si ritrovano i ricordi di quel periodo nei suoi bozzetti di Vita militare e nel libro autobiografico Due imperi…mancati (1920), un esempio atipico di antiinterventismo, accolto paradossalmente in senso favorevole da interventisti della prima ora come Ardengo Soffici e Giovanni Papini. Due imperi… mancati verrà ripubblicato dall’autore, ma parzialmente, all’interno dell’opera autobiografica Il piacere della memoria nel 1964. Durante gli anni del fascismo, Palazzeschi non partecipò alla cultura ufficiale nonostante gli sforzi intrapresi in questo senso da Filippo Tommaso Marinetti; compì qualche viaggio a Parigi e dal 1926 collaborò al Corriere della sera.
Nel 1921 pubblicò il suo primo libro di racconti, presso Vallecchi, Il re bello; nel 1926 uno “scherzo” iniziato nel 1912 dal titolo La Piramide. Nel 1929 trovarono spazio su vari giornali e riviste, fra cui Pègaso, Pan e Il Selvaggio, novelle, saggi e ricordi. Fra il 1930 e il 1931 si recò più volte a Parigi dove ebbe modo di conoscere Filippo De Pisis, Georges Braque e Henri Matisse. Nel 1930 venne stampata dall’editore Preda a Milano l’edizione definitiva delle Poesie risistemate con alcune variazioni; frequentò i coniugi Prezzolini e conobbe Pirandello a casa Crémieux; nel 1931 pubblicò altri racconti su Pègaso e sulla Gazzetta del Popolo; apparve nella «Collezione Romantica» Mondadori, la sua traduzione di Tartarino di Tarascona di Alphonse Daudet. Nel 1932, abbandonate le veneri della stravaganza e dell’iconoclastica di matrice futurista, si riconciliò con le forme tradizionali pubblicando, su proposta di Ugo Ojetti, Stampe dell’Ottocento, prose di ricordi. Nel 1933 collaborò con alcuni racconti alla terza pagina del settimanale Quadrivio di Telesio Interlandi.
Nel 1934 fece parte della giuria del premio di poesia della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Uscì presso Vallecchi il romanzo Sorelle Materassi, anticipato a puntate sulla Nuova Antologia diretta da Luigi Federzoni. Il romanzo, uscito in volume, fu recensito da Antonio Baldini sulla rivista Omnibus di Leo Longanesi:
« Le Sorelle Materassi sono il frutto di un lungo e attento esame di queste figure di donne senza amore. […] Non è un libro travolgente ma di penetrazione, di creature umili e anche ridicole, ma con una bella e sicura anima certamente, e con un significato alto nella loro pocaggine »
Per quanto concerne Palazzeschi, sempre schivo a rilasciare interviste, in occasione dell’uscita delle Sorelle Materassi ne concesse una alla Gazzetta del Popolo, in cui, dopo aver riassunto la trama del romanzo, dichiarò:
« Per la schiettezza nostrale dell’ispirazione, aggiungerò un documento infallibile: questo lavoro è stato citato all’ordine del giorno di Strapaese »
Nel 1935 contribuì economicamente alla rivista culturale L’Universale di Berto Ricci e ne frequentò la redazione. Nel 1937 collaborò con alcune novelle alla rivista Omnibus su invito del direttore Longanesi. Il 1937 fu altresì l’anno de Il palio dei buffi, seconda raccolta di novelle.
Anni romani
Nel 1938 morì il padre e nel 1939 la madre di Palazzeschi. Il 15 ottobre 1939 scrisse sulla nuova rivista di Curzio Malaparte, Prospettive. A marzo è a Roma in occasione dell’elezione di Papa Pio XII. Nel 1941, si trasferì a Roma dove abiterà fino alla morte. Del 1945 è un altro libro autobiografico Tre imperi…mancati testimonianza polemica ma anche melanconica della seconda guerra mondiale.
Nel 1947 grazie all’intercessione di don Giuseppe De Luca ebbe un’udienza papale. Nel 1948 ottenne, ex aequo con Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, il premio Viareggio per il romanzo I fratelli Cuccoli. Preoccupato dinanzi all’eventualità di una vittoria comunista, si mobilitò contro il Fronte popolare in occasione delle politiche del ’48. Tra il 1950 e il 1951, per dieci mesi, curò la rubrica cinematografica del settimanale Epoca. Nel 1953 presso Vallecchi pubblicò il romanzo Roma, per il quale Palazzeschi ricevette il Premio Marzotto.
Nel 1954 uscirono nuove edizioni di Sorelle Materassi e de Il codice di Perelà, con il titolo L’uomo di fumo. A dicembre dello stesso anno fece parte con Marino Moretti della giuria del premio Alessandro Manzoni dell’Unione Editori Cattolici Italiani. Nel 1955 pubblicò presso Scheiwiller la raccolta di poesie Viaggio sentimentale. Collaborò al Corriere della Sera e a La Fiera Letteraria. Nel 1957 gli venne assegnato dall’Accademia dei Lincei il premio Feltrinelli per la letteratura. Nel 1960 l’Università di Padova gli conferì la laurea in lettere honoris causa. Nel 1964 pubblicò il libro autobiografico Il piacere della memoria. In agosto gli venne annunciato il conferimento, da parte dell’ex sovrano Umberto II, dell’Ordine Civile dei Savoia.
Nel febbraio del 1965 presenziò alla conferenza Con Gozzano e altri poeti nel salotto di Nonna Speranza di Nino Tripodi. Nello stesso anno presiedette le giurie di vari premi tra cui quella del premio Nazionale d’arte Ardengo Soffici a Prato, e quelle letterarie del premio Fiuggi, del premio Settembrini-Mestre e del premio Stradanova. Intervistato da Franco Escoffier per Il Gazzettino in merito alla legge sul divorzio entrata in vigore quell’anno si espresse contrariamente. Nel 1966 diede alle stampe gli Schizzi italofrancesi (All’insegna del pesce d’oro, Milano). In aprile uscì presso Mondadori la raccolta di novelle Il buffo integrale, che ottenne il premio Gabriele D’Annunzio.
Nel 1967 le Nuovedizioni Enrico Vallecchi pubblicarono la raccolta di prose Ieri oggi e… non domani. Da Mondadori uscì in maggio il romanzo Il Doge. Sul Corriere della Sera il 22 ottobre Palazzeschi polemizzò con Edoardo Sanguineti in merito alla Neoavanguardia:
« Coloro che furono avanguardisti cinquant’anni fa, saranno i più acerrimi nemici degli avanguardisti d’oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono rimasti attaccati. E dunque, caro Sanguineti, che cos’è mai questa avanguardia? »
Nell’aprile del 1968 uscì da Mondadori la raccolta Cuor mio, in cui sono contenute le liriche composte a partire dal secondo dopoguerra. Nel 1969 fu l’anno del romanzo Stefanino (1969). Nel 1971 uscirono presso Mondadori il nuovo romanzo Storia di un’amicizia e l’antologia Poesie, a cura di Sergio Antonielli. A primavera ricevette dal sindaco di Roma il Premio della Simpatia, ideato dall’amico Domenico Pertica. Nel 1972 venne nominato membro onorario dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Nel mese di giugno apparve su Il Giornale d’Italia un suo articolo intitolato La simpatia.
Supervisionò inoltre alla produzione dello sceneggiato televisivo Sorelle Materassi, messo in onda dalla RAI sempre nel 1972. Questo evento mediale fu di vasta portata: l’opera dell’artista, giunto ormai a tarda età, fece il suo ingresso in milioni di focolai domestici e diede un contributo tutt’altro che trascurabile alla fama del Palazzeschi romanziere. Lo stesso anno uscì nella collana Mondadori Lo Specchio la raccolta di poesie Via delle cento stelle, a proposito della quale Palazzeschi dichiarerà:
« Ho voluto fare qualcosa di nuovo, seguire un’altra strada con questi versi, senza pretese di costruzione e di lingua. Sono appunti, quasi un diario. Non sono impegnati, ma lasciati scivolare via così… »
Nel 1973 ricevette numerosi premi e riconoscimenti: il Perseo d’oro del C.O.F.A.T. 1973-1974, l’Ulivo d’oro per la poesia, la Grand Aigle d’or de la Ville de Nice al Festival International du Livre. In marzo il presidente Andreotti lo informò della nomina a componente della Commissione per il conferimento dei Premi della «Penna d’Oro» e del «Libro d’oro». Collaborò con Paolo Prestigiacomo al suo antico carteggio con Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato in seguito nel 1978. Un corteo di personaggi passa per la sua casa. Riceve continuamente Prezzolini e sua moglie da Lugano e, da Venezia, il conte Cini con la contessa. A Vittorio Cini l’autore si sarebbe ispirato per la figura del doge nel romanzo omonimo del 1967.
Nel marzo del 1974, una sua prefazione a La prima lettera di San Pietro apparve per i tipi della Tipografia poliglotta vaticana. Quando si stavano preparando i festeggiamenti per i suoi novant’anni e le riviste Il Verri e Galleria gli dedicavano un numero monografico, lo scrittore, per gravi condizioni seguite a un ascesso dentario trascurato, morì all’ospedale Fatebenefratelli, il 17 agosto alle 11. Negli ultimi anni di vita il sentimento religioso dello scrittore si è via via intensificato tanto da accostarsi frequentemente al sacramento dell’Eucarestia e da ricevere la benedizione tante e tante sere come conforto per la notte, presso la Chiesa di Sant’Eustachio.
Poetica
Originalità della sua poesia
Palazzeschi, anche se nelle varie fasi della sua lunga attività di scrittore si è accostato ai movimenti contemporanei, ha sempre mantenuto la sua individualità e una particolare fisionomia. Anche quando egli, in un primo tempo, riprende i motivi crepuscolari e, in seguito, quelli futuristi, mantiene la sua originalità. I temi crepuscolari da lui ripresi sono infatti privi di languori eccessivi: se Palazzeschi ne ricalca certe situazioni, sostituisce però lo scherzo al sospiro e contamina il tono elegiaco con la presa in giro che conferisce alle sue liriche il carattere di divertimento.
Analoghe considerazioni valgono per l’adesione di Palazzeschi ad altre correnti. Lo scrittore seguirà come detto per breve tempo il movimento futurista e nel dichiarare ufficialmente sulla rivista Lacerba, nel 1914, che non si considerava più un futurista dichiarerà apertamente la sua vocazione al gioco della fantasia e al riso: «bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride… Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente…». Questo atteggiamento fa sì che in Palazzeschi si ritrovino i temi e i toni più vari: dall’immagine più onirica alla risata beffarda, dal divertimento funambolesco alla canzonatura che non esclude, comunque, un che di affettuoso e completamente estraneo al futurismo.
Sempre in tema di futurismo, si pensi all’originalità di liriche come Pizzicheria dove viene introdotto il dialogo tra il pizzicagnolo e il cliente. Per quanto riguarda La passeggiata, questa poesia non è altro che l’enumerazione delle diverse immagini, delle scritte pubblicitarie e dei numeri civici che l’io poetico immagina di osservare durante la passeggiata tra le vie di una città, passeggiata che ha dunque la funzione di una cornice. Con questi stravolgimenti, Palazzeschi sembra seguire i futuristi dei quali però non interessa né l’esaltazione del movimento, né l’attivismo politico, ma principalmente la distruzione delle tradizionali strutture.
Narrativa
Tutte queste posizioni sono facilmente riscontrabili nella sua narrativa che avrà, nell’opera di Palazzeschi, una parte prevalente. Una notevole prova viene data dall’autore già nel 1911 con Il Codice di Perelà: romanzo futurista che è la storia di un inconsistente omino di fumo capitato nel nostro mondo. È questa una favola allegorica dove il divertimento non rimane solamente fantastico ma lascia il posto per l’irrisione, di matrice nietzscheana, dei valori codificati della nostra società che, visti attraverso il modo di vivere anticonformista di Perelà, risultano essere una denuncia della loro provvisorietà e credibilità. Anche nell’opera successiva, Piramide (scritta subito dopo ma pubblicata nel 1926) rimaniamo ancora nel campo della fantasticheria umoristica, mentre nelle Stampe dell’Ottocento del 1932 e in Sorelle Materassi del 1934, il tono cambia decisamente.
Vengono in esse adottati moduli narrativi più tradizionali che richiamano, nella rappresentazione degli ambienti e dei personaggi, alla forma del bozzettismo toscano di fine Ottocento e una più soffusa interpretazione del programmatico E lasciatemi divertire che si avvia a toni di umana malinconia e comprensione. Su posizioni più tradizionali, si pone dunque la produzione successiva alla fase futurista. È il periodo del cosiddetto “ritorno all’ordine”, che viene generalmente distinto in due fasi: la prima è quella degli anni Trenta, coincidente con il romanzo Sorelle Materassi e le novelle Il Palio dei buffi; la seconda si distende lungo gli anni Quaranta e Cinquanta ed è rappresentata dai romanzi I fratelli Cuccoli e Roma. Nella prima la tradizione letteraria è accettata, ma sono evidenti elementi del programmatico E lasciatemi divertire; nella seconda il canone tradzionale è perfettamente rispettato e la carica dissacrante è totalmente assente[34]. Quest’ultima fase coincide con il riavvicinamento del poeta alla religione cattolica ed è pienamente incarnata dal romanzo, più denso di cristiana fierezza[35], Roma del 1953. Protagoniste di quest’ultimo romanzo sono la città e la Chiesa. Quella descritta da Palazzeschi è la Roma cristiana del cattolicesimo, in cui alla desacralizzazione che in quegli anni segnava la capitale, l’autore contrappone la vocazione della Chiesa a elevare gli umili e i dogmi della religione cattolica.
Coerenza delle sue opere
Una delle qualità che si evidenziano nella produzione di Palazzeschi è la coerenza del suo lavoro e il legame che esiste tra un’opera e l’altra. Pertanto anche in queste opere non si cade mai nel sentimentalismo elegiaco perché spesso le pagine sono percorse da sprazzi di riso. Ed è appunto questo amalgamarsi di sorriso e pietà, che non rinnega la vocazione al divertimento.
Onorificenze
Cavaliere dell’Ordine al merito civile di Savoia – nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell’Ordine al merito civile di Savoia
— 1964.
Opere
Poesia
I cavalli bianchi, Spinelli, Firenze 1905.
Lanterna, Stabilimento Tipografico Aldino, Firenze 1907
Poemi, a cura di Cesare Blanc, Stabilimento tipografico Aldino, Firenze 1909
E lasciatemi divertire… 1910
L’incendiario (1905-1909). Col rapporto sulla vittoria futurista di Trieste, Edizioni Futuriste di poesia, Milano 1910
Poesie 1904-1914, Firenze, 1925
Poesie, Milano 1930
Poesie 1904-1914, Firenze 1942
Piazza San Pietro, poesia, in facsimile, illustrata da Mino Maccari, Firenze 1945
Difetti 1905, Milano 1947
Viaggio sentimentale, Milano 1955
Schizzi italo-francesi, Milano 1966
Cuor mio, Mondadori, Milano 1968
Via delle cento stelle 1971-1972, Milano 1972
Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2002
Le poesie oggi sono reperibili per lo più in pubblicazioni antologiche. Le poesie crepuscolari I cavalli bianchi e Lanterna sono disponibili presso la casa editrice romana Empirìa.
Narrativa
:riflessi, Cesare Blanc, Firenze, 1908 (successivamente con il titolo Allegoria di novembre)
Il codice di Perelà, Edizioni futuriste di Poesia, Milano, 1911 (riscritto, col titolo L’uomo di fumo, Vallecchi, Firenze, 1954, Firenze 1911)
Due imperi mancati, Vallecchi, Firenze 1920
Il Re bello, Vallecchi, Firenze 1921
La piramide. Scherzo di cattivo genere e fuor di luogo, Vallecchi, Firenze 1926
Stampe dell’Ottocento, Treves-Treccani-Tumminelli, Milano – Roma, 1932
Sorelle Materassi, Vallecchi, Firenze 1934
Il palio dei buffi, Vallecchi, Firenze 1937
Tre imperi mancati. Cronaca (1922-1945), Vallecchi, Firenze 1945
I fratelli Cuccoli, Vallecchi, Firenze 1948
Bestie del ‘900, Vallecchi, Firenze 1951
Roma, Vallecchi, Firenze 1953
Scherzi di gioventù (raccolta di lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizi e del manifesto L’antidolore), Milano 1956
Vita militare, Rebellato, Padova 1959
Il piacere della memoria, Mondadori, Milano 1964
Il buffo integrale, Mondadori, Milano 1966
Ieri, oggi e…non domani, Nuovedizioni E. Vallecchi, Firenze 1967
Il doge, Mondadori, Milano 1967
Stefanino, Mondadori, Milano 1969
Storia di un’amicizia, Mondadori, Milano 1971
Interrogatorio della contessa Maria, Mondadori, Milano 1988
Epistolari
Carteggio Marinetti-Palazzeschi, introduzione di P. Prestigiacomo, presentazione di L. De Maria, Milano 1978
Aldo Palazzeschi, Giuseppe Prezzolini, Carteggio, 1912-1973, a cura di Michele Ferrario, Ed. di Storia e Letteratura, 1987
Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Carteggio. 1912-1933, a cura di Stefania Alessandra Bottini, Ed. di Storia e Letteratura, 2006
Aldo Palazzeschi e la rivista Film. Lettere, a cura di Matilde Tortora, Napoli, 2009
Aldo Palazzeschi, Ardengo Soffici, Carteggio. 1912-1960, a cura di Simone Magherini, Ed. di Storia e Letteratura, 2011
Alessandro Bianco nasce a Trieste il 12.05.1931.
Esercita la professione di medico a Susa (TO).
Dal 1975 inizia il suo curriculum letterario conil 3° Premio al “Pier Marini”. La sua poesia viene giudicata motivazione del 3° Premio dell’Uliveto. 1977.
Quella di Alessandro Bianco è una poesia rapida, secca, netta, quasi epigrammatica, che nulla
concede agli indugi delle descrizioni o dei giochi verbali o alle immagini delle sottigliezze dei
sentimenti, e guarda piuttosto a concludere fra rabbia ed ironia, con una certa sprezzatura che è,
insieme, autoinvito a non fare troppe storie e lucidità estrema del giudizio, la dichiarazione del
messaggio nel modo più rilevato e chiaro.
Giorgio Barberi Squarotti
Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938) è stata una poetessa italiana.
« Triste orto abbandonato l’anima
si cinge di selvagge siepi
di amori:
morire è questo
ricoprirsi di rovi
nati in noi »
(Antonia Pozzi, da Naufraghi, 19 dicembre 1933)
Figlia di Roberto, importante avvocato milanese, e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi, Antonia scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel liceo classico Manzoni di Milano, dove vive con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verrà interrotta da Cervi nel 1933. Forse a causa di questa grave ingerenza nella sua sfera affettiva, parlando di sé quell’anno scrive:
«e tu sei entrata
nella strada del morire».
Nel 1930 si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, e segue le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, forse il più aperto e moderno docente universitario italiano del tempo, col quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert.
Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi tanti interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, studia il tedesco, il francese e l’inglese, viaggia, pur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra, ma il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, nella provincia di Lecco, dove si trova la sua biblioteca e dove studia, scrive e cerca sollievo nel contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece descrizioni degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene.
La grande italianista Maria Corti, che la conobbe all’università, disse che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili».
Avvertiva certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpirono alcuni dei suoi amici più cari: «forse l’età delle parole è finita per sempre», scrisse quell’anno a Sereni.
A soli ventisei anni si tolse la vita. Nel suo biglietto di addio ai genitori scrisse di «disperazione mortale». Si uccise mediante barbiturici in una sera di dicembre del 1938, nel prato antistante l’abbazia di Chiaravalle. La famiglia negò la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite; il suo testamento fu distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite.
È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo: il monumento funebre, un Cristo in bronzo, è opera dello scultore Giannino Castiglioni.
Parte dal crepuscolarismo di Sergio Corazzini:
«Appoggiami la testa sulla spalla
che ti carezzi con un gesto lento […
Lascia ch’io sola pianga, se qualcuno
suona, in un canto, qualche nenia triste»
per poi interiorizzarlo:
«vivo della poesia come le vene vivono del sangue», scrive. E infatti cerca di esprimere con le parole l’autenticità dell’esistenza, non trovando verità nella propria. Quanto riservata e rigorosa fu la sua breve vita, altrettanto le sue parole, secondo la lezione ermetica, «sono asciutte e dure come i sassi» o «vestite di veli bianchi strappati», ridotte al «minimo di peso», come le descrisse Montale, parole che trasferiscono peso e sostanza alle immagini, per liberare l’animo oppresso ed effondere il sentimento nelle cose trasfigurate.
Dall’espressionismo tedesco trae atmosfere desolate e inquietanti:
«le corolle dei dolci fiori
insabbiate.
Forse nella notte
qualche ponte verrà
sommerso.
Solitudine e pianto –
solitudine e pianto
dei larici»
oppure:
«All’alba pallidi vedemmo le rondini
sui fili fradici immote
spiare cenni arcani di partenza»
o anche:
«Petali viola
mi raccoglievi in grembo
a sera:
quando batté il cancello
e fu oscura
la via del ritorno»
La crisi di un’epoca s’intreccia alla sua tragedia personale e se, come scrisse in una lettera, «la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare», quel dolore non si placa nella sua poesia ma, come un fiume carsico, ora vi circola sotterraneo e ora emerge e tracima, sommergendo l’espressione poetica nel modo stesso in cui travolse la sua vita.
Antonia Pozzi nel cinema
Antonia Pozzi è stata raccontata nel cine-documentario della regista milanese Marina Spada Poesia che mi guardi, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, tenutasi nel 2009. In occasione del centenario della nascita della poetessa, i registi lecchesi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno realizzato un film documentario prodotto da Emofilm intitolato “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa”, presentato in anteprima a Lecco e Pasturo nel marzo 2014.
Nel 2014 uscirà il film Antonia di Ferdinando Cito Filomarino.
Opere
Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Nelle edizioni più recenti è stata ricostruita la genesi delle sue poesie.
Parole, Milano, Mondadori, 1939, I ed., 91 poesie; 1943, II ed., 157 poesie; 1948, III ed., 159 poesie; 1964, IV ed., 176 poesie, con prefazione di Eugenio Montale.
Flaubert. La formazione letteraria (1830 – 1865), tesi di laurea, con prefazione di Antonio Banfi, Garzanti, 1940.
La vita sognata ed altre poesie inedite, Milano, Scheiwiller, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, 1986.
Diari, introduzione di O. Dino a cura di O. Dino e A.Cenni, Scheiwiller, 1988.
L’età delle parole è finita. Lettere (1925 – 1938), con prefazione di A. Cenni, Milano, Archinto, 1989.
Parole, con prefazione di Alessandra Cenni, a cura di A. Cenni e O. Dino, Milano, Garzanti, 1989 e 2001
Pozzi e Sereni. La giovinezza che non trova scampo, a cura di Alessandra Cenni, Milano, Scheiwiller, 1988.
Mentre tu dormi le stagioni passano…, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Milano, Viennepierre, 1998.
Poesia, mi confesso con te. Ultime poesie inedite (1929-1933), a cura di Onorina Dino, Viennepierre, 2004.
Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di L. Pellegatta e O. Dino, Milano, Ancora, 2007.
Diari e altri scritti, nuova edizione a cura di Onorina Dino, note ai testi e postfazione di Matteo M. Vecchio, Milano, Viennepierre, 2008
A. Pozzi – T. Gadenz, Epistolario (1933-1938), a cura di O. Dino, Viennepierre, Milano 2008
Tutte le opere, a cura di Alessandra Cenni, Garzanti, Milano, 2009
Poesia che mi guardi, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Bologna, Luca Sossella Editore, 2010
Soltanto in sogno. Lettere e fotografie per Dino Formaggio, a cura di Giuseppe Sandrini, Verona, Alba Pratalia, 2011
Flaubert. La formazione letteraria (1830-1865) , a cura di Alessandra Cenni, Milano, Libri Scheiwiller, 2012
Lieve offerta, Poesie e Prose, a cura di Alessandra Cenni e Silvio Raffo, Milano, Bietti, 2013
William Collins detto Billy (New York, 22 marzo 1941) è un poeta statunitense.
Poeta laureato dal 2001 al 2003 attualmente insegna letteratura inglese al Lehman College (Bronx).
Billy Collins, popolare come pochi altri negli Stati Uniti, nato nel 1941 a New York, poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni 2000, ed ora anche in Italia.
Una poesia disanimata sembra un ossimoro, una contraddizione intermini. Una poesia non può non avere un’anima; magari è nascosta, ma ce l’ha. Allora a volte succede che per farla venir fuori certe persone prendono la poesia e la spiegano, le tolgono le pieghe, l’appiattiscono. Insomma: la spianano passandole sopra il ferro da stiro della spiegazione. Così l’anima (che ha a che fare con il vento, con il greco ànemos) scappa via, e sull’asse da stiro o sul banco di scuola restano le parole inanimate, prive del soffio vitale che le riempiva, che dava loro spessore, che le rendeva casse di risonanza che suonavano in armonia, con i loro ritmi e i loro respiri. Dopo il trattamento, le parole giacciono inermi, sotto vuoto: brandelli di un corpo fatto a pezzi, sul tavolo dell’anatomista.
Contro gli squartatori di versi scrive alcune poesie Billy Collins, popolare come pochi altri negli Stati Uniti, nato nel 1941 a New York, poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni 2000, ed ora anche in Italia.
Sono versi che arrivano direttamente, senza bisogno di molte mediazioni, anche se, a dire il vero, qui già una mediazione c’è stata, ed è quella del traduttore, che spera di avere fatto meno guai possibile. Ma traduttori a loro modo sono anche i lettori ad alta voce dei versi, a partire dallo stesso Billy Collins, che riempie con i suoi reading i teatri degli Stati Uniti o i suoi lettori-interpreti, dall’attore Bill Murray, ai numerosi dilettanti che testimoniano un affetto per quei versi riraccontandoli, come possono, nelle tante clip fatte in casa su youTube.
E interpreti sono anche quelli che cercano di riscrivere i versi, non con altre parole, ma con i tratti di una matita, le forme di un disegno, le immagini catturate da una fotografia. La letteratura è piena di esempi altissimi di poeti che si sono cimentati con la descrizione di quadri o oggetti d’arte: dalla descrizione dello scudo di Achille dell’Iliade ai quadri di De Chirico nelle poesie di Mark Strand. Ma l’ecfrasi, il tentativo cioè di un’arte di riprodurre con i propri strumenti e le proprie istituzioni un’opera prodotta in un altro sistema artistico, avviene non solo dall’immagine alla parola, ma anche nell’altra direzione: dalla parola all’immagine, dal raccontare con le parole (“telling”), al mostrare con immagini ferme o in movimento (“showing”). Siamo nel campo apertissimo dell’adattamento, così ricco e presente nel nostro tempo, come ha mostrato Linda Hutcheoncon un bel libro, ora tradotto in italiano (Teoria degli adattamenti, tr. it. G.V. Distefano, Armando, Roma,2011). Con i nuovi mezzi elettronici questa interazione è ancora più accentuata e diffusa, e coinvolge anche la poesia, aiutandola ad uscire dal recinto claustrofobico e mortifero in cui a volte certo accademismo un po’ snob e autoreferenziale la confina.
Billy Collins è stato coprotagonista di un progetto suggeritogli dal Sundance Channel, il network televisivo via cavo americano promotore di tanto cinema indipendente. Collins, come racconta lui stesso in un bel video tradotto con i sottotitoli da Daniele Buratti, registrò cinque suoi testi che vennero poi riscritti in immagini da specialisti dell’animazione. Nel video Collins racconta come ci si possa imbattere involontariamente in queste poesie animate, senza avere il tempo di dispiegare gli anticorpi antipoesia che certe imposizioni scolastiche ci hanno costretto a sviluppare: e soprattutto ci mostra questi filmati. Non sono spiegazioni delle poesie. Semmai le accompagnano, o meglio, si integrano con esse, non come “riduzioni”, ma come contrappunto dei versi in un nuovo oggetto, che sta a sé, così come il Decameron di Pasolini sta a sé, senza avere alcuna intenzione di essere una spiegazione della raccolta di novelle di Boccaccio.
Henry Charles “Hank” Bukowski Jr., nato Heinrich Karl Bukowski (noto anche con lo pseudonimo Henry Chinaski, suo alter ego letterario) (Andernach, 16 agosto 1920 – San Pedro, 9 marzo 1994) è stato un poeta e scrittore statunitense di origine tedesca.
Ha scritto sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia di poesie, per un totale di oltre sessanta libri. Il contenuto di questi tratta della sua vita, caratterizzata da un rapporto morboso con l’alcol, da frequenti esperienze sessuali (descritte in maniera realistica e senza troppi eufemismi) e da rapporti tempestosi con le persone. La corrente letteraria a cui spesso viene associato è quella del realismo sporco
« Tutti dobbiamo morire, tutti quanti, che circo! Non fosse che per questo dovremmo amarci tutti quanti e invece no, siamo schiacciati dalle banalità, siamo divorati dal nulla. »
(C. Bukowski, Il capitano è fuori a pranzo)
Bukowski pubblicò numerosissimi scritti in piccole riviste letterarie e con piccoli editori, dai primi anni ’40 fino ai primi anni Novanta. In seguito la Black Sparrow Press (ora HarperCollins/ECCO) ripubblicò tutto in volume.
Bukowski riconosce l’influenza sulla sua scrittura di John Fante, James Thurber, Louis-Ferdinand Céline, Anton Čechov, Franz Kafka, Knut Hamsun, Ernest Hemingway, Henry Miller, Robinson Jeffers, Fëdor Dostoevskij, David Herbert Lawrence, J.D. Salinger, Antonin Artaud ed Edward Estlin Cummings.
Il suo nome è stato spesso associato al movimento della Beat Generation a causa del suo stile informale e dell’atteggiamento anticonformista verso la letteratura, ma lui non si è mai identificato come un “Beat”.
Spesso parlò di Los Angeles come del suo soggetto preferito. In un’intervista del 1974 disse: “Vivi in una città tutta la vita, e arrivi a conoscere ogni puttana all’angolo e metà di loro le hai già scopate. Hai il menabò, la struttura, dell’intera zona. Hai una foto di dove sei… Essendo cresciuto a Los Angeles, ho sempre avuto il sentimento geografico e spirituale di essere qui. Ho avuto il tempo di conoscere questa città. Non vedo altro posto che L.A.”
Un critico ha descritto i suoi libri come “una pittura dettagliata di certe fantasie maschili tabù: lo scapolo disinibito, solitario, antisociale, e totalmente libero”, un’immagine a cui tentò di conformarsi con occasionali letture pubbliche di poesia in cui si comportava da pazzo, e con un modo di fare scandaloso alle feste.
A partire dalla sua morte nel 1994, sono stati pubblicati molti articoli e libri sia sulla sua vita che sui suoi scritti. Il suo lavoro però ha ricevuto relativamente poca attenzione dai critici accademici. HarperCollins/ECCO ha continuato a pubblicare nuove raccolte delle sue poesie, prelevandole dalle migliaia di lavori pubblicati sulle piccole riviste letterarie. L’uscita del 2007, The People Look Like Flowers At Last, conclude questo progetto: tutto ciò che ha scritto Bukowski (e che non ha distrutto lui stesso, come ha raccontato a Fernanda Pivano), è disponibile ora al grande pubblico. Bukowski stesso decise di pubblicare postume alcune di queste opere, un po’ per giocare con la morte, com’era nel suo stile.
Figlio di un ex artigliere delle truppe americane, Charles ha solo tre anni quando la famiglia si trasferisce a Los Angeles, negli Stati Uniti. Qui trascorre l’infanzia costretto dai genitori a un quasi totale isolamento dal mondo esterno. Già si notano i primi segni della sua vena ribellistica e di una fragile, confusa vocazione alla scrittura. A sei anni, era un bambino con un carattere già ben formato: schivo e impaurito, escluso dalle partite di baseball giocate sotto casa, irriso per il suo tenue accento teutonico, manifesta difficoltà di inserimento.
A tredici anni inizia a bere e a frequentare una chiassosa banda di teppisti. Nel 1938 Charles Bukowski si diploma senza troppi entusiasmi alla “L.A. High School” e a vent’anni abbandona la casa paterna. Inizia così un periodo di vagabondaggio segnato dall’alcol e da una sequenza infinita di lavori saltuari. Bukowski è a New Orleans, a San Francisco, a St. Louis, soggiorna in una pensione-bordello di tagliagole filippini, fa il lavapiatti, il posteggiatore, il facchino, si sveglia sulle panchine dei parchi pubblici, per qualche tempo finisce perfino in galera. E continua a scrivere.
I suoi racconti e le sue poesie trovano spazio su giornali come “Story” ma soprattutto sulle pagine delle riviste underground. Non è infatti una fugace o “poetica” linfa creativa che lo induce a scrivere, ma la rabbia verso la vita, l’amarezza perenne del giusto di fronte ai torti e all’insensibilità degli altri uomini. Le storie di Charles Bukowski sono imperniate su un autobiografismo quasi ossessivo. Il sesso, l’alcol, le corse dei cavalli, lo squallore delle vite marginali, l’ipocrisia del “sogno americano” sono i temi sui quali vengono intessute infinite variazioni grazie a una scrittura veloce, semplice ma estremamente feroce e corrosiva. Assunto dal Postal Office di Los Angeles e inaugurato un burrascoso rapporto sentimentale con Jane Baker, Bukowski attraversa gli anni ’50 e ’60 continuando a pubblicare semiclandestinamente, soffocato dalla monotonia della vita d’ufficio e minato da eccessi di ogni genere. Nel settembre dei 1964 diviene padre di Marina, nata dalla fugace unione con Frances Smith, giovane poetessa.
Comincia l’importante collaborazione con il settimanale alternativo “Open City”: le sue velenose colonne verranno raccolte nel volume “Taccuino di un vecchio sporcaccione”, che gli regalerà ampi consensi fra gli ambienti della protesta giovanile. La speranza di poter divenire uno scrittore full time gli diede il coraggio di licenziarsi dall’insopportabile ufficio postale all’età di 49 anni (quegli anni sono condensati nel memorabile “Post Office”). Comincia il periodo dei readings poetici, vissuti come vero e proprio tormento.
Nel 1969, dopo la tragica morte di Jane stroncata dall’alcol, Bukowski conosce l’uomo destinato a cambiargli la vita: John Martin. Manager di professione e appassionato di letteratura per vocazione, Martin era rimasto fortemente impressionato dalle poesie di Bukowski tanto da proporgli di lasciare l’impiego all’ufficio postale per dedicarsi completamente alla scrittura. Lui si sarebbe occupato della fase organizzativa di tutta l’operazione, provvedendo a versare a Bukowski un assegno periodico quale anticipo sui diritti d’autore e impegnandosi a promuovere e a commercializzare le sue opere. Bukowski accetta la proposta.
Incoraggiato dai buoni risultati ottenuti dalle prime plaquette stampate in poche centinaia di copie, John Martin fonda la “Black Sparrow Press”, ripromettendosi di pubblicare tutte le opere di Charles Bukowski. In pochi anni è il successo. Inizialmente i consensi sembrano essere limitati all’Europa, poi la leggenda di “Hank” Bukowski, ultimo scrittore maledetto, sbarca negli Stati Uniti. Inizia il periodo dei reading poetici, vissuti da Bukowski come un vero e proprio incubo e documentati magnificamente in molti dei suoi racconti. Proprio durante una di queste letture, nel 1976, Bukowski conosce Linda Lee, unica tra le sue molte compagne a mitigarne la vena autodistruttiva, l’unica tra le sue bizzose compagne capace di mettere freno alla pericolosa imprevedibilità di Hank. Gli stenti del vagabondo paiono d’altronde ormai terminati: Hank è ricco e universalmente conosciuto come il bizzarro scrittore di “Storie di ordinaria follia”.
Linda gli fa cambiare regime alimentare, gli riduce l’alcol, lo incoraggia a non alzarsi mai prima di mezzogiorno. Il periodo degli stenti e del vagabondaggio si chiude definitivamente. Gli ultimi anni sono vissuti in grande serenità e agiatezza. Ma la vena creativa non viene meno. Si ammala ammala di tubercolosi nel 1988, tuttavia, in condizioni fisiche via via più precarie, Bukowski continua a scrivere e a pubblicare. Alle sue opere si ispirano i due registi Marco Ferreri e Barbet Schroeder per altrettante riduzioni cinematografiche. Documentata dalle ormai celeberrime sue ultime parole: “Ti ho dato tante di quelle occasioni che avresti dovuto portarmi via parecchio tempo fa. Vorrei essere sepolto vicino all’ippodromo… per sentire la volata sulla dirittura d’arrivo”, la morte lo colpisce il 9 marzo 1994.
Emily Elizabeth Dickinson (Amherst, 10 dicembre 1830 – Amherst, 15 maggio 1886) è stata una poetessa statunitense. È considerata tra i maggiori lirici del XIX secolo.
Nacque nel 1830 ad Amherst da una famiglia borghese di tradizioni puritane.Emily era conosciuta per il sostegno fornito alle istituzioni scolastiche locali. Suo nonno, Samuel Fowler Dickinson, era uno dei fondatori dell’Amherst College, mentre il padre ricopriva la funzione di legale e tesoriere dell’Istituto; inoltre, ricopriva importanti incarichi presso il Tribunale Generale del Massachusetts, il Senato dello Stato e la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti.
I suoi studi non furono regolari: durante gli anni delle scuole superiori decise, di sua spontanea volontà, di allontanarsi dal College Femminile di Mount Holyoke onde evitare di professarsi pubblicamente cristiana seguendo la moda dei “revival” dell’epoca. Le sue amicizie furono scarse.
Questo fu un giudizio espresso sui suoi genitori:
Mio padre è troppo impegnato con le difese giudiziarie per accorgersi di cosa facciamo. Mi compra molti libri
ma mi prega di non leggerli
perché ha paura che scuotano la mente
Emily Dickinson scoprì la propria vocazione poetica durante il periodo di revival religioso che, nei decenni 1840-50, si diffuse rapidamente nella regione occidentale del Massachusetts.
Uno dei suoi biografi ha affermato che concepì l’idea di diventare poetessa avendo come riferimento – in termini biblici – la lotta di Giacobbe con l’angelo.
Emily Dickinson visse la maggior parte della propria vita nella casa dove era nata, ebbe modo di fare solo rare visite ai parenti di Boston, di Cambridge e nel Connecticut. La giovane donna amava la natura, ma era costantemente ossessionata dalla morte, vestiva solo di bianco in segno di purezza. Si innamorò di un pastore protestante ma il suo rimase un amore platonico; dedicò molte sue opere a questo amore. Gran parte della sua produzione poetica riflette e coglie non solo i piccoli momenti di vita quotidiana, ma anche i temi e le battaglie più importanti che coinvolgevano il resto della società. Per esempio, più della metà delle sue poesie fu scritta durante gli anni della Guerra di secessione americana. Per citare alcuni tra i suoi versi più memorabili, le poesie della Dickinson dicono tutta la verità, ma la dicono indirettamente:
Dì tutta la verità ma dilla obliqua
Il successo sta in un circuito
Troppo brillante per la nostra malferma delizia
La superba sorpresa della verità
Come un fulmine ai bambini chiarito
Con tenere spiegazioni
La verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi.
Nel 1855 compie un viaggio a Washington e a Filadelfia ,dove conobbe il reverendo Wadsworth. Quando Emily Dickinson aveva venticinque anni decise, dopo un breve viaggio a Washington, di estraniarsi dal mondo e si rinchiuse nella propria camera al piano superiore della casa paterna, anche a causa del sopravvenire di disturbi nervosi e di una fastidiosa malattia agli occhi, e non uscì di lì neanche il giorno della morte dei suoi genitori. Credeva che con la fantasia si riuscisse a ottenere tutto e interpretava la solitudine e il rapporto con sé stessa come veicoli per la felicità. Al momento della sua morte la sorella scoprì nella camera di Emily 1775 poesie scritte su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo contenuti tutti in un raccoglitore. Prima della sua morte, vennero pubblicati solo sette testi. Oggi, Emily Dickinson viene considerata non solo una delle poetesse più sensibili di tutti i tempi, ma anche una delle più rappresentative. Alcune caratteristiche delle sue opere, all’epoca ritenute inusuali, sono ora molto apprezzate dalla critica e considerate aspetti particolari e inconfondibili del suo stile. Le digressioni enfatiche, l’uso poco convenzionale delle maiuscole, le lineette telegrafiche, i ritmi salmodianti, le rime asimmetriche, le voci multiple e le elaborate metafore sono diventati marchi di riconoscimento per i lettori che anno dopo anno l’hanno apprezzata e tradotta.
Emily Dickinson morì di nefrite nello stesso luogo in cui era nata, ad Amherst, nel Massachusetts, il 15 maggio 1886 all’età di 56 anni.
Il linguaggio di Emily Dickinson era semplice e brillante. Non ebbe molti riconoscimenti durante la sua vita, perché i più prediligevano un linguaggio maggiormente ricercato e le sue opere non risultavano conformi a tale gusto dell’epoca.
Il suo amore per la natura traspare da tutte le sue poesie. Altro tema ricorrente è la morte, per esempio Tie the Strings to my Life, My Lord (Annoda i lacci alla mia vita, Signore):
Annoda i Lacci alla mia Vita, Signore,
Poi, sarò pronta ad andare!
Solo un’occhiata ai Cavalli –
In fretta! Potrà bastare!
…..
Addio alla Vita che ho vissuto –
E al Mondo che ho conosciuto –
E Bacia le Colline, per me, basta una volta –
Ora – sono pronta ad andare
Nel 1890, la sorella di Emily,Vinnie, e Mabel Loomis Todd, amica e amante del fratello Austin, riescono a ottenere la pubblicazione di un volume di poesie, primo di una lunga serie. Dal 1924 al 1935 vengono pubblicate altre trecento poesie di Emily Dickinson, trovate dalla nipote Martha dopo la morte della madre, cognata di Emily, a cui le aveva affidate in custodia quando era ancora in vita.
Nel 1955 Thomas H. Johnson cura la prima edizione critica in tre volumi di tutte le poesie di Emily Dickinson, in ordine cronologico e nella loro forma originale (1775 poesie). Dal 1998 è disponibile una nuova edizione critica, a cura di Ralph W. Franklin, sempre in tre volumi, con una revisione della cronologia e una nuova numerazione delle poesie (1789 poesie più otto in appendice).
La fortuna e quindi il riconoscimento della sua importanza nella letteratura angloamericana, l’arricchirsi delle sue traduzioni, anche in italiano, e di opere di studio su di lei come di quelle a lei dedicate o ispirate è quindi piuttosto recente.
Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è stato un poeta, giornalista, critico musicale e scrittore italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1975.
Eugenio Montale nacque a Genova, in un palazzo dell’attuale corso Dogali, nella zona soprastante Principe, il 12 ottobre 1896, ultimo dei sei figli di Domenico Montale e Giuseppina Ricci, esponenti della media borghesia genovese. Il padre era comproprietario di una ditta di prodotti chimici, la società G. G. Montale & C., tra l’altro fornitrice di Veneziani S.p.A., azienda presso cui era impiegato Italo Svevo.
Formazione
Inizia gli studi all’istituto “Vittorino Da Feltre” di Via Maragliano gestito dai Barnabiti (rettore è padre Rodolfo Trabattoni, vice rettore padre Giovanni Semeria). Il 21 maggio riceve la cresima. Sebbene per lui vengano preferiti, a causa della sua salute precaria, i più brevi studi tecnici in luogo di quelli classici e venga dunque iscritto nel 1915 all’istituto tecnico commerciale “Vittorio Emanuele”, dove si diplomerà in ragioneria, il giovane Montale ha la possibilità di coltivare i propri interessi prevalentemente letterari, frequentando le biblioteche cittadine e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia.
La sua formazione è dunque quella tipica dell’autodidatta, che scopre interessi e vocazione attraverso un percorso libero da condizionamenti. Letteratura (Dante, Petrarca, Boccaccio e D’Annunzio su tutti, autori che lo stesso Montale affermerà di avere “attraversato”) e lingue straniere sono il terreno in cui getta le prime radici la sua formazione e il suo immaginario, assieme al panorama, ancora intatto, della Riviera ligure di Levante: Monterosso al Mare e le Cinque Terre, dove la famiglia trascorre le vacanze. «Scabri ed essenziali», come egli definì la sua stessa terra, gli anni della giovinezza delimitano in Montale una visione del mondo in cui prevalgono i sentimenti privati e l’osservazione profonda e minuziosa delle poche cose che lo circondano – la natura mediterranea e le donne della famiglia.
Ma quel “piccolo mondo” è sorretto intellettualmente da una vena linguistica nutrita di queste lunghe letture, finalizzate soprattutto al piacere della conoscenza e della scoperta. In questo periodo di formazione Montale coltiva inoltre la passione per il canto, studiando dal 1915 al 1923 con l’ex baritono Ernesto Sivori, esperienza che lascia in lui un vivo interesse per la musica, anche se non si esibirà mai in pubblico. Riceverà comunque già nel 1942 dediche da Tommaso Landolfi, fondatore con altri della rivista Letteratura.
Grande Guerra e avvento del Fascismo
Nell’anno 1917 dopo quattro visite mediche è dichiarato idoneo al servizio militare, a settembre è arruolato nel 23° fanteria a Novara, frequenta a Parma il corso allievi ufficiali di complemento ottenendo il grado di sottotenente di fanteria e chiede di essere inviato al fronte, dall’aprile 1917 combatte in Vallarsa con il 158° fanteria ed il 3 novembre 1918 conclude la guerra entrando a Rovereto. In seguito fu trasferito a Kiens in Val Pusteria ed al campo di prigionieri di guerra di Eremo di Lanzo (To), viene congedato con il grado di tenente nel 1920.
Negli anni tra il 1919 e il 1923, conosce a Monterosso Anna degli Uberti (1904-1959), protagonista femminile in un insieme di poesie montaliane, trasversali nelle varie opere, note come “ciclo di Arletta” (chiamata anche Annetta o capinera). Nel 1924 conosce la giovane di origine peruviana Paola “Edda” Nicoli, anch’ella presente negli Ossi di seppia e ne Le occasioni. È il momento dell’affermazione del fascismo, dal quale Montale prende subito le distanze sottoscrivendo nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Montale vive questo periodo nella “reclusione” della provincia ligure, che gli ispira una visione profondamente negativa della vita.
Montale giunge a Firenze nel 1927 per il lavoro di redattore ottenuto presso l’editore Bemporad. Nel capoluogo toscano gli anni precedenti erano stati decisivi per la nascita della poesia italiana moderna, soprattutto grazie alle aperture della cultura fiorentina nei confronti di tutto ciò che accadeva in Europa: le Edizioni de La Voce; i Canti Orfici di Dino Campana (1914); le prime liriche di Ungaretti per Lacerba; e l’accoglienza di poeti come Vincenzo Cardarelli e Umberto Saba.
Montale dopo l’edizione degli Ossi del 1925, nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux (ne sarà espulso nel 1938 per la mancata iscrizione al partito fascista); nel frattempo collabora alla rivista Solaria, frequenta i ritrovi letterari del caffè Le Giubbe Rosse conoscendovi Carlo Emilio Gadda e Elio Vittorini, e scrive per quasi tutte le nuove riviste letterarie che nascono e muoiono in quegli anni di ricerca poetica. In questo contesto prova anche l’arte pittorica imparando dal Maestro Elio Romano l’impasto dei colori e l’uso dei pennelli. Nel ’29 è ospite nella casa di Drusilla Tanzi (che aveva conosciuto nel ’27) e del marito, lo storico d’arte Matteo Marangoni, casa dove due anni prima gli avevano presentato anche Gerti Frankl.
La vita a Firenze però si trascina per il poeta tra incertezze economiche e complicati rapporti sentimentali; legge molto Dante e Svevo, e i classici americani. Fino al 1948, l’anno del trasferimento a Milano, egli pubblica Le occasioni e le prime liriche di quelle che formeranno La bufera e altro (che uscirà nel 1956). Montale, che non si era iscritto al Partito fascista e dopo il delitto di Giacomo Matteotti era stato firmatario del manifesto crociano, prova subito dopo la guerra ad iscriversi al Partito d’azione, ma ne esce pochissimo tempo dopo.
« L’argomento della mia poesia (…) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio (…). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia »
(E. Montale in “Confessioni di scrittori (Intervista con se stessi)”, Milano 1976)
Montale trascorre l’ultima parte della sua vita (dal 1948 alla morte) a Milano. Diventa collaboratore del Corriere della sera e critico musicale per il “Corriere d’informazione”. Scrive inoltre reportage culturali da vari Paesi (fra cui il Medio Oriente, visitato in occasione del pellegrinaggio di Papa Paolo VI in Terra Santa). Scrive altresì di letteratura anglo-americana per la terza pagina, avvalendosi anche della collaborazione dell’amico americano Henry Furst, il quale gli invia molti articoli su autori e argomenti da lui stesso richiesti. Nel 1956, oltre a La bufera esce anche la raccolta di prose Farfalla di Dinard.
Il 23 luglio 1962 sposa Drusilla Tanzi, con cui conviveva dal 1939, di dieci anni più anziana di lui, con rito religioso a Montereggi, presso Fiesole; il rito civile viene celebrato a Firenze il 30 aprile 1963. (Matteo Marangoni, primo marito di lei, era morto nel 1958), la quale morirà tuttavia a Milano il 20 ottobre dello stesso anno all’età di 77 anni. La salute di lei si era rapidamente deteriorata in seguito alla frattura di un femore nell’agosto di quell’anno. Nel 1969 viene pubblicata un’antologia dei reportage di Montale, intitolata Fuori di casa, in richiamo al tema del viaggio. Il mondo di Montale, tuttavia, risiede in particolare nella “trasognata solitudine”, come la definisce Angelo Marchese, del suo appartamento milanese di via Bigli, dove viene amorevolmente assistito, alla morte di Drusilla, da Gina Tiossi.
Le ultime raccolte di versi, Xenia (1966, dedicata alla moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963), Satura (1971) e Diario del ’71 e del ’72 (1973), testimoniano in modo definitivo il distacco del poeta – ironico e mai amaro – dalla Vita con la maiuscola: «pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato» (Montale, Intenzioni. Intervista immaginaria, Milano 1976). Sempre nel 1966 Montale pubblicò i saggi Auto da fé, una lucida riflessione sulle trasformazioni culturali in corso.
Anche se poeta trasognato e “dimesso”, è anche stato oggetto di riconoscimenti ufficiali: lauree honoris causa (Università di Milano nel 1961, Università di Cambridge 1967, La Sapienza 1974). Fu nominato senatore a vita il 13 giugno 1967 dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per i meriti in campo letterario, aderendo al gruppo del PLI e poi a quello del PRI.
Vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1975. Nel pieno del dibattito civile sulla necessità dell’impegno politico degli intellettuali, Montale continuò ad essere un poeta molto letto in Italia. Nel 1976 scrisse il commiato funebre al suo collega defunto, il salernitano Alfonso Gatto. L’anno seguente gli fu chiesto se, una volta sorteggiato, avrebbe accettato di fare il giurato in un processo contro le Brigate Rosse: “Credo di no”, rispose l’anziano poeta, “sono un uomo come gli altri e non si può chiedere a nessuno di fare l’eroe”.
Eugenio Montale morì a Milano la sera del 12 settembre 1981, un mese prima di compiere 85 anni, nella clinica San Pio X dove si trovava ricoverato per problemi derivati da una vasculopatia cerebrale. I funerali di Stato furono celebrati due giorni dopo nel Duomo di Milano dall’allora arcivescovo della diocesi Carlo Maria Martini. Venne sepolto nel cimitero accanto alla chiesa di San Felice a Ema, sobborgo nella periferia sud di Firenze, accanto alla moglie Drusilla.
Le raccolte di versi contengono la storia della sua poesia: Ossi di seppia (1925); Le occasioni (1939); Finisterre (1943); Quaderno di traduzioni (1948); La bufera e altro (1956); Farfalla di Dinard (1956); Xenia (1966); Auto da fé (1966); Fuori di casa (1969); Satura (1971); Diario del ’71 e del ’72 (1973); Sulla poesia (1976); Quaderno di quattro anni (1977); Altri versi (1980); Diario postumo (1996; su quest’ultima opera è stato manifestato il dubbio di non autenticità da parte di alcuni studiosi).
Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l’affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l’impossibilità di dare una risposta all’esistenza: in una delle liriche introduttive, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell’opera designa l’esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l’uomo, che con l’età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale.
In tal modo Montale capovolge l’atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell’uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce “Divina Indifferenza”, ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all’uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale “Divina indifferenza” è l’esatto contrario della “Provvidenza divina” manzoniana. La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere).
Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un’epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un’interpretazione compiuta della vita e dell’uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l’attesa di un miracolo.
L’emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce comunque nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine da “reclusione” interiore genera il colloquio con le cose, quelle della riviera ligure, o del mare. Una natura “scarna, scabra, allucinante”, e un “mare fermentante” dal richiamo ipnotico, proprio del paesaggio mediterraneo. Il manoscritto autografo di Ossi di seppia è conservato presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia.
In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall’abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e dantista americana Irma Brandeis, di origini ebraiche e perciò costretta a rimpatriare dopo la promulgazione delle leggi razziali.
La memoria è sollecitata da alcune “occasioni” di richiamo, in particolare si delineano figure femminili, per esempio la fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta (già presente negli Ossi), oppure Dora Markus, della omonima poesia: sono nuove “Beatrici” a cui il poeta affida la propria speranza. La figura della donna, soprattutto Clizia (senhal di Irma), viene perseguita da Montale attraverso un’idea lirica della donna-angelo, messaggera divina. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell’amore fortemente idealizzata, che non si traduce necessariamente in realtà.
Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi, e anche se non di un ermetismo irrazionale, espressione di una sua personale tensione razionale e sentimentale. In Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, molto presente nella poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l’idea della morte, l’impossibilità di dare una spiegazione valida all’esistenza, lo scorrere inesorabile del tempo (Non recidere, forbice, quel volto).
Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della “crisi” che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti.
Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia di vita, quasi temesse di non avere abbastanza tempo “per dire tutto” (quasi una sensazione di vicinanza della morte); Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata “Mosca” per le spesse lenti degli occhiali da vista. Il titolo richiama xenia, che nell’antica Grecia erano i doni fatti all’ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro – scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell’edizione Mondadori – Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell’impennata lirica e insieme la “prosa” che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.»
Non chiederci in Leida
Montale ha scritto relativamente poco: quattro raccolte di brevi liriche, un “quaderno” di traduzioni di poesia e vari libri di traduzioni in prosa, due volumi di critica letteraria e uno di prose di fantasia. A ciò si aggiungono gli articoli della collaborazione al Corriere della sera. Il quadro è perfettamente coerente con l’esperienza del mondo così come si costituisce nel suo animo negli anni di formazione, che sono poi quelli in cui vedono la luce le liriche della raccolta Ossi di seppia.
La poesia è per Montale principalmente strumento e testimonianza dell’indagine sulla condizione esistenziale dell’uomo moderno, in cerca di un assoluto che è però inconoscibile. Tale concezione poetica – approfondita negli anni della maturità, ma mai rinnegata – non attribuisce alla poesia uno specifico ruolo di elevazione spirituale; anzi, Montale al suo lettore dice di “non chiedere la parola”, non “domandare” la “formula” che possa aprire nuovi mondi. Il poeta può solo dire “ciò che non siamo”: è la negatività esistenziale vissuta dall’uomo novecentesco dilaniato dal divenire storico. A differenza delle “illuminazioni” ungarettiane, Montale fa un ampio uso di idee, di emozioni e di sensazioni più indefinite.
Egli cerca infatti una soluzione simbolica (il “correlativo oggettivo”, contemporaneamente adottato da Thomas Stearns Eliot) in cui la realtà dell’esperienza diventa una testimonianza di vita. Proprio in alcune di queste immagini il poeta crede di trovare una risposta, una soluzione al problema del “male di vivere”: ad esempio, il mare (in Ossi di seppia) o alcune figure di donne che sono state importanti nella sua vita. La poesia di Montale assume dunque il valore di testimonianza e un preciso significato morale: Montale esalta lo stoicismo etico di chi compie in qualsiasi situazione storica e politica il proprio dovere.
Rispetto a questa visione, la poesia si pone per Montale come espressione profonda e personale della propria ricerca di dignità e del tentativo più alto di comunicare fra gli uomini. L’opera di Montale è, infatti, sempre sorretta da un’intima esigenza di moralità, ma priva di qualunque intenzione moralistica: il poeta non si propone come guida spirituale o morale per gli altri; attraverso la poesia egli tenta di esprimere la necessità dell’individuo di vivere nel mondo accogliendo con dignità la propria fragilità, incompiutezza, debolezza. Montale non credeva all’esistenza di «leggi immutabili e fisse» che regolassero l’esistenza dell’uomo e della natura; da qui deriva la sua coerente sfiducia in qualsiasi teoria filosofica, religiosa, ideologica che avesse la pretesa di dare un inquadramento generale e definitivo, la sua diffidenza verso coloro che proclamavano fedi sicure. Per il poeta la realtà è segnata da una insanabile frattura fra l’individuo e il mondo, che provoca un senso di frustrazione e di estraneità, un malessere esistenziale. Questa condizione umana è, secondo Montale, impossibile da sanare se non in momenti eccezionali, veri stati di grazia istantanei che Montale definisce miracoli, gli eventi prodigiosi in cui si rivela la verità delle cose, il senso nascosto dell’esistenza.
Alcuni caratteri fondamentali del linguaggio poetico montaliano sono i simboli: nella poesia di Montale compaiono oggetti che tornano e rimbalzano da un testo all’altro e assumono il valore di simboli della condizione umana, segnata, secondo il poeta, dal malessere esistenziale, e dall’attesa di un avvenimento, un miracolo, che riscatti questa condizione rivelando il senso e il significato della vita. In Ossi di seppia il muro è il simbolo negativo di uno stato di chiusura e oppressione, mentre i simboli positivi che alludono alle possibilità di evasione, di fuga e di libertà, sono l’anello che non tiene, il varco, la maglia rotta nella rete. Nelle raccolte successive il panorama culturale, sentimentale e ideologico cambia, e quindi risulta nuova anche la simbologia. Per esempio nella seconda raccolta, Le occasioni, diventa centrale la figura di Clizia, il nome letterario che allude alla giovane ebrea-americana Irma Brandeis, (italianista ed intellettuale) amata da Montale[13], che assume una funzione “angelico-salvifica” e dalla quale è possibile aspettare il miracolo da cui dipende ogni residua possibilità di salvezza esistenziale.
Fabrizio De André è uno dei capisaldi della canzone d’autore italiana. Profondamente influenzato dalla scuola d’oltre Oceano di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor piu’ da quella francese degli “chansonnier” (Georges Brassens su tutti), e’ stato tra i primi a infrangere i dogmi della “canzonetta” italiana, con le sue ballate cupe, affollate di anime perse, emarginati e derelitti d’ogni angolo del mondo. Il suo canzoniere universale attinge alle fonti piu’ disparate: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall'”Antologia di Spoon River” ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli apocrifi, dai “Fiori del male” di Baudelaire al Fellini dei “Vitelloni”. Temi che negli anni si sono accompagnati a un’evoluzione musicale intelligente, mai incline alle facili mode e ai compromessi.
De Andre’ usava il linguaggio di un poeta non allineato, ricorrendo alla forza dissacrante dell’ironia per frantumare ogni convenzione. Nel suo mirino, sono finiti i “benpensanti”, i farisei, i boia, i giudici forcaioli, i re cialtroni di ogni tempo. Il suo, in definitiva, e’ un disperato messaggio di liberta’ e di riscatto contro “le leggi del branco” e l’arroganza del potere. Di lui, Mario Luzi, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, ha detto: “De Andre’ e’ veramente lo chansonnier per eccellenza, un artista che si realizza proprio nell’intertestualita’ tra testo letterario e testo musicale. Ha una storia e morde davvero”.
Le musiche delle sue prime canzoni, radicate da Nicola Piovani dentro la tradizione popolare italiana, sono state negli anni contaminate da altre culture. Il suo linguaggio si e’ gradualmente evoluto verso il sincretismo. E proprio la valorizzazione dei dialetti gli e’ valsa il Premio Govi. “In una nazione giovane come l’Italia i dialetti sono indispensabili – ripeteva spesso -. Rappresentano un desiderio di identificazione nelle proprie radici che si fa tanto piu’ forte quanto piu’ si diffonde l’idea di una mega-statalizzazione europea. E poi l’italiano, se non fosse nutrito delle frasi idiomatiche, diverrebbe un linguaggio adatto solo a vendere patate o a litigare nei tribunali”.
Fabrizio De Andre’ nasce a Genova il 18 febbraio 1940. Leggenda narra che sul giradischi di casa suo padre avesse messo il “Valzer campestre” di Gino Marinuzzi, dal quale, oltre venticinque anni dopo, il figlio trarra’ la canzone “Valzer per un amore”. Con il padre braccato dai fascisti, il resto della famiglia, scoppiata la Guerra, si rifugia nell’astigiano, per poi tornare nel ’45 a Genova, dove De Andre’ porta avanti gli studi fermandosi all’universita’ (facolta’ di Legge) a sei esami alla fine. Questo perche’, nel frattempo, era nata la sua vocazione musicale, tramite gli studi di chitarra e violino, e l’esibizione in concerti jazz, fino alla composizione di propri brani originali. Una vocazione che, grazie al successo dell’interpretazione nel ’68 da parte di Mina della sua “Canzone di Marinella”, gli permette di continuare il mestiere di musicista.
Sono gli anni in cui la Scuola di Genova sforna canzoni d’autore con Paoli, Bindi, Lauzi e soprattutto Luigi Tenco. L’amicizia di De Andre’ con quest’ultimo nasce in una balera di Genova. Tenco gli si avvicina dicendo: “Sei tu che vai in giro a dire che ‘Quando’ l’hai scritta tu?”. “Si’, l’avevo detto in giro per prender della figa”, la replica di De Andre’. Tenco si mette a ridere. La notte del suicidio di Tenco a Sanremo, De Andre’ rimarra’ insonne davanti un foglio di carta, scrivendo la struggente “Preghiera in Gennaio” per l’amico scomparso (un tema, quello del suicidio “eroico”, gia’ caro al Cohen di “Who By Fire” e che ricorrera’ spesso nel canzoniere di De Andre’).
Il primo vero 45 giri attribuito al cantautore genovese e’ pero’ “Nuvole Barocche” (1958), un brano d’impostazione tradizionale sulla falsariga della canzone melodica d’autore di Domenico Modugno. Gia’ dai singoli successivi, tuttavia, emerge il vero De Andre’. “La guerra di Piero” e’ la sua canzone anti-militarista per eccellenza, quasi la risposta italiana agli inni pacifisti di Bob Dylan e Joan Baez. “La citta’ vecchia” e’ una summa a ritmo di mazurca di tutti i quartieri malfamati dell’umanita’. “Delitto di paese” e’ una ballata noir in cui miseria e morale bigotta sono immersi in un clima baudelairiano da “Fiori del male”. La “Ballata dell’Amore cieco”, parabola crudele della vanita’ femminile, sembra uscita da una delle leggende dei Nibelunghi. La “Canzone dell’amore perduto” e’ interpretata con tono fatalista su una musica del compositore tedesco Georg Philipp Telemann: il tema del concerto per tromba e orchestra in Re maggiore. La ballata medievale di “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (scritta con Paolo Villaggio) e’ degna dei monologhi “storici” piu’ oltraggiosi del teatro di Dario Fo. E poi ancora “Via del campo” e “Bocca di rosa”, filastrocche incantate in cui la prostituzione viene ancora una volta redenta in chiave mitica. A colpire è anche l’interpretazione di De André, che – come Cohen – indulge sulle tonalità più basse, grazie alla sua voce profonda e baritonale, aggiungendo un tocco di drammaticità.
Con questi brani, De Andre’ demolisce, ad uno ad uno, tutti i clichè della canzone tradizionale coronando, in Italia, un’operazione paragonabile a quella compiuta da Dylan negli Stati Uniti. “Se non avessi mai conosciuto le canzoni di Fabrizio, non avrei mai cominciato a scrivere le mie”, ha detto, per esempio, Francesco De Gregori. E anche Franco Battiato si e’ detto debitore delle ballate di De Andre’, tanto che nel suo album “Fleurs” ha voluto incidere due cover (“La canzone dell’amore perduto” e “Amore che vieni, amore che vai”) tratte dal primo repertorio dell’artista ligure.
La fine del decennio Sessanta e’ uno dei momenti topici della carriera dell’artista ligure. Escono infatti Fabrizio De Andre’ – Volume I, che raccoglie alcuni dei suoi piu’ fortunati singoli, seguito l’anno dopo dal sontuoso concept-album Tutti Morimmo A Stento. E’ un viaggio in un girone dantesco della desolazione umana, tra drogati, impiccati, ragazze traviate e bambini impazziti, sulle note di un’orchestra sinfonica diretta dai fratelli Reverberi. Disco fin troppo ridondante e barocco, influenzato dai primi vagiti del progressive italiano, “Tutti morimmo a stento” rappresenta tuttavia uno dei momenti piu’ alti della carriera di De Andre’. I brani si susseguono senza pause, scanditi dagli “Intermezzi”, in un crescendo che trova il punto piu’ alto nel “Recitativo” e si scioglie nel coro finale. Attraverso la “Leggenda di Natale”, favola delicata ispirata da un testo di Brassens in cui la semplicita’ dei giri d’accordi e delle rime baciate riesce a creare un’atmosfera magica e rarefatta, si perviene alla “Ballata degli impiccati”, centro ideale di questa architettura. I versi di De Andre’ – sempre scarni, ruvidi, sarcastici – non cedono mai alla retorica del sentimentalismo: “Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fiori” (“Via del campo”) e’ il suo credo. Cosi’ anche i condannati a morte della “Ballata degli impiccati” (ispirata dalla “Ballade des Pendus” di Villon) si trasfigurano in creature mitiche, animate da un disperato, smisurato rancore (“Chi derise la nostra sconfitta/ e l’estrema vergogna ed il modo/ soffocato da identica stretta/ impari a conoscere il nodo. Chi la terra ci sparse sull’ossa/ e riprese tranquillo il cammino/ giunga anch’egli stravolto alla fossa/ con la nebbia del primo mattino/ La donna che celo’ in un sorriso/ il disagio di darci memoria/ ritrovi ogni notte sul viso/ un insulto del tempo e una scoria”).
A dare una nota scenografica al disco e’ “Inverno”, che rinnova la tradizione delle “poesie stagionali” in voga nell’Inghilterra del Settecento: l’inverno e’ l’immagine della natura che si annulla nel bianco della neve e nel nero degli alberi scarni, segnando la fine ciclica di tutte le cose.
Seguira’ un periodo particolarmente prolifico, in cui De Andre’ produrra’ quasi un album all’anno. Prevale, nelle sue canzoni, la preferenza per toni musicali attutiti, smorzati, “in minore”, che accompagnano una versificazione che riecheggia la ballata di tradizione e di lontana provenienza medievale. Ma negli anni i riferimenti del suo repertorio aumentano. I Vangeli apocrifi sono alla base della Buona Novella, il disco che De Andre’ considerava “il piu’ riuscito”, in cui l’annuncio del Salvatore si trasforma in atto di fede laico. L'”Antologia di Spoon River” e’ lo spunto per Non al denaro, non all’amore ne’ al cielo, in cui brilla quella metafora sarcastica di tutte le invidie e le bassezze umane che e’ “Un giudice”.
In Italia, sono gli anni caldi della contestazione. De Andre’ si professa anarchico e sembra quasi cedere alla tentazione eversiva in Storia di un Impiegato, uno dei suoi album piu’ controversi. Il disco narra la vicenda di un travet che, sull’onda del Maggio francese, e’ contagiato dal fuoco rivoluzionario. E’ una cupa profezia sulla degenerazione della contestazione in terrorismo che, di li’ a poco, infettera’ la storia italiana. Mai cosi’ crudo e realistico, De Andre’ ricorre a un linguaggio moderno che – come scrive Roberto Dane’ nell’introduzione – “si stacca dalla forma di racconto per approdare a immagini di tipo psicologico fino a figure oniriche di stampo reichiano”. Uno stile che pervade il pezzo-manifesto dell’album “La bomba in testa”, brano drammatico e trascinante, che denuncia il conflitto lacerante tra l’ansia di cambiamento e le sirene lugubri della violenza. L’album e’ un susseguirsi di canzoni dal ritmo sincopato, accompagnate da un linguaggio involuto, carico di metafore ricorrenti e ossessive.
Con questo disco De Andre’, forse inconsapevolmente, scende nell’agone politico. L’estrema sinistra gli da’ del qualunquista; la destra lo accusa di propaganda eversiva. Ma lui si ostina a ripetere: “Il mio identikit politico e’ quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo… In realta’ vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacita’”.
Canzoni (1974) segna il ritorno a uno stile piu’ pacato e a un linguaggio piu’ letterario, grazie a una manciata di cover di Dylan (“Desolation Row”), Brassens (il recitato di “Morire per delle idee” e la splendida ballata “Le Passanti”) e Cohen (“Suzanne” e “Giovanna d’Arco”): quasi una summa dei suoi riferimenti artistici. Il successivo Volume VIII (1975), nato dall’incontro con Francesco De Gregori, segna un’altra tappa nell’evoluzione della canzone italiana degli anni Settanta, nel segno di una “poesia cantata”, impreziosita da un linguaggio sempre piu’ ricercato. De Gregori porta il suo tipico stile da fiaba metropolitana, De Andre’ accentua, esasperandolo, l’uso di figure retoriche, fantasie e nonsense. Uno stile che tocca il suo vertice nella struggente “Amico fragile”, metafora di chi si oppone per coltivare i suoi sogni solitari, e “Giugno ’73”, epigrafe del matrimonio borghese e delle sue convenzioni. Sono canzoni costruite quasi solo sui versi, in cui la musica non ha quasi altro senso se non quello di suggerire il “tono” da seguire.
La musica di De André si fa più ricca e sostenuta con l’approdo nella Rimini (1978) felliniana dei “Vitelloni”. L’album, composto insieme a Massimo Bubola, segna pero’ una caduta di tono, cedendo a tratti al richiamo del facile ritornello e del ritmo accattivante. La traduzione in italiano (con strane variazioni lessicali in una sorta di immaginario dialetto meridionale) di “Romance in Durango” di Dylan, per il quale il cantautore americano si complimentò di persona con De André è un’intuizione brillante. Ma alcuni brani sembrano costruiti solo sull’eco delle prodezze passate. “Andrea” e “Sally”, comunque, sono due filastrocche magiche, degne del periodo di “Marinella”.
Fa da suggello all’uscita dell’album un tour con la Pfm, testimoniato da un album doppio in cui i classici del cantautore genovese, magistralmente riarrangiati in chiave rock, trovano nuova linfa.
Due donne segnano la vita di Fabrizio De Andre’: Enrica Rignon detta “Puny”, che sposa nel ’62, e Dori Ghezzi, che diviene la sua compagna dal ’75 in poi. E’ con lei che decide di ritirarsi in quella fattoria dell’Agnata in Gallura (Sardegna), che gli ricorda “la Liguria degli anni ’40, in cui c’erano piu’ alberi che case, piu’ animali che uomini”. Ed e’ sempre con Dori Ghezzi che vive l’esperienza drammatica dei quattro mesi di sequestro. Un’esperienza che segna parte dell’album senza titolo che sara’ poi ribattezzato L’Indiano. Neanche di fronte ai suoi rapitori De Andre’ perde il “vizio” di rovesciare la morale comune su colpevoli e giudici. I malviventi sardi, cosi’, diventano “marinai di foresta” o indiani Sioux, criminali e oppressi al contempo. “Sono stato rapito da una banda di Cherokee – raccontava – che, prima ancora di volere i soldi, voleva dimostrare il coraggio di rapire una persona”. Il disco tuttavia e’ uno degli episodi meno convincenti della sua carriera, infarcito di canzoni ripetitive e pedanti, prive di quella magica ispirazione che aveva caratterizzato il decennio ’70. Fa eccezione la struggente “danza indiana” di “Fiume Sand Creek”, che evoca il massacro perpetrato dagli uomini di un certo colonnello Chiwington, il quale venne poi eletto al Senato degli Stati Uniti.
Quando sembra che la sua vena poetica si stia inaridendo, De Andre’ sorprende tutti gettandosi in un progetto tanto ambizioso quanto originale: Crueza de ma, nato dalla collaborazione con Mauro Pagani e scritto integralmente in genovese, “l’idioma neolatino piu’ ricco di fonemi arabi”. E’ l’inno a quella Genova che per De Andre’ rappresentava un piccolo continente a se’, con “il suo sapore di mare, il profumo della sua cucina, ma anche il puzzo del porto e del pesce marcio”, quella Genova che aveva “la faccia di tutti gli esclusi conosciuti nella citta’ vecchia, le ‘graziose’ di via del Campo, i ‘fiori che sbocciano dal letame'”. De Andre’, infatti, pur essendo nato da una famiglia borghese, ha sempre prediletto “i quartieri dove il sole del buon Dio/ non da’ i suoi raggi/ le calate dei vecchi moli/ l’aria spessa carica di sale/ gonfia di odori”, descritti nella “Citta’ vecchia”. “Crueza de ma” e’ un viaggio appassionato nella musica mediterranea, dove gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana (dalla gaida macedone alla chitarra andalusa, dallo shannaj turco al liuto arabo) convivono con quelli elettrici in un universo poetico di rara intensita’. Nascono cosi’ brani raffinati come la title track, “Sinan Capudan Pascia’”, “Sidun”. Il disco segna una pietra miliare per l’allora nascente world music italiana ed e’ premiato dalla critica come miglior album dell’anno e del decennio.
Intanto, De Andre’ collabora con l’altro “guru” della scena genovese, Ivano Fossati, in vari brani (tra cui “Questi posti davanti al mare”) e sposa Dori Ghezzi nel 1989. Un anno dopo esce Le nuvole, album tutto sommato interlocutorio, se si eccettua la graffiante metafora della “Domenica delle Salme” e la beffarda ballata di “Don Raffae'” in cui il protagonista, boss detenuto nella cella-reggia di Poggioreale, e’ assistito da un secondino-maggiordomo che e’ al servizio della mala non per disonesta’, ma per la latitanza dello Stato, che si e’ inghiottito i suoi “quaranta concorsi, seicento domande e novanta ricorsi”.
Segue un periodo di silenzio di quattro anni, finche’ nel 1996 Fabrizio De Andre’ torna con Anime Salve, frutto della collaborazione con Ivano Fossati. Quello che e’ destinato a rimanere come il suo testamento musicale e’ anche un disco splendido, un viaggio pieno di suggestioni, sapori, incontri. Da Bahia a Genova, passando per la Sardegna. E’ un percorso affollato di spiriti solitari, che abitano angoli appartati della Terra. “L’isolamento – diceva De Andre’ – ti consente di non stare nel mucchio. E’ la sola condizione idonea a non essere contaminati da passioni di parte, uno stato di tranquillita’ dell’animo che permette di abbandonarsi all’assoluto”. Un obiettivo annunciato fin dal titolo dell’album, che mantiene l’etimo tanto di “animo” quanto di “salvo”, ovvero “spirito solitario”.
Interamente acustico, l’album mescola sapori etnici, jazz, folk. La title track – in cui Fossati accompagna De André anche al canto, imprimendo la sua tipica andatura “rallentata” – è una ballata dolente. “Mi sono visto di spalle che partivo”, recita un verso: e’ un rifiuto dell’identita’ anagrafica, dell’uomo costruito dalla “legge del branco”, che impone a ciascuno dove e come stare al mondo. Un rifiuto simile a quello di “Princesa” (dall’omonimo racconto-intervista di Maurizio Iannelli), il trans brasiliano che tenta di “correggere la fortuna” per finire “tra ingorghi di desideri” maschili. Una straordinaria invenzione letteraria e musicale costruita su ritmi bahiani (una fusione di jazz, pop e bossanova ) e colori tropicali.
Altra solitudine volontaria e libera e’ quella dei Rom, descritti tramite la tribu’ serbo-montenegrina dei “Khorakhane'”, raminga per il mondo “tra le fiamme dei fiori a ridere e a bere”. E’ un’altra ballata acustica, che sfocia in un finale epico, cantato in lingua rom da Dori Ghezzi. Non scampano a un destino di solitudine neanche la tenerissima “Dolcenera” e il pescatore di “Le acciughe fanno il pallone”, che insegue l’impossibile “sogno” di “pescare il pesce d’oro”. E quando “la corsa del tempo spariglia destini e fortune”, nasce l’invidia e la faida di “Disamistade”, che non ha pieta’ di nessuno, innocenti e assassini.
Il disco si chiude con la solenne invocazione di “Smisurata Preghiera” (ispirata dal “Gabbiere” di Alvaro Mutis), che e’ quasi il testamento spirituale dell’intera opera di De Andre’. E’ la testimonianza di chi ha vissuto sempre uno splendido isolamento, presupposto necessario per “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanita’”. Sono episodi di grande intensita’ emotiva, racchiusi in arrangiamenti raffinati, in bilico tra suoni morbidi e una ritmica prepotente. La chitarra di De Andre’ e’ circondata da un mare di strumenti antichi e nuovi, dalle disparate origini geografiche, nel segno di un sincretismo culturale che si riflette anche nella scelta delle lingue, con brani cantati in italiano, romanes, brasiliano, genovese. E la sua voce profonda, seppur offuscata dal fumo e dagli anni, riesce sempre a incantare. Nel tour successivo, l’abbraccio con i figli, Cristiano e Luvi. Con quest’ultima, si rinnova sul palco il magico duetto di “Geordie”.
“Ho un’estrazione borghese e mi sono adagiato un po’ su questo materasso di piume. Avrei potuto dare molto di piu’ se fossi nato alla Foce, da un pescivendolo”, diceva spesso De Andre’ scherzando sulla sua proverbiale pigrizia. Una pigrizia che faceva disperare i discografici: quasi impossibile strappargli un’intervista (tutt’al piu’, come nel mio caso, qualche risposta scritta, ndr), molto difficile vederlo in tournée. Eppure uno scherzo del destino ha voluto che proprio la sua ultima estate fosse la piu’ densa di appuntamenti. Una sfilza di concerti in tutt’Italia che doveva rilanciarlo, dopo la firma del “contratto-anti-pigrizia”, come aveva ribattezzato l’accordo fino al 2002 con la Ricordi. “Adesso – aveva annunciato – dovro’ decidermi a fare il disco di cover dedicato ai cantautori brasiliani che ho in mente da tempo. Con i miei ritmi non ce la farei a registrarne uno tutto mio”.
Fabrizio De Andre’ e’ morto l’11 gennaio 1999, all’Istituto dei Tumori di Milano. Lascia alla cultura italiana versi e suoni da ricordare; alle cronache musicali, una folla innumerevole di imitatori.
I suoi estimatori gli dedicheranno i versi che Fabrizio aveva scritto per l’amico Luigi Tenco la notte in cui s’era ammazzato: “Ascolta la sua voce/ che ormai canta nel vento/ Dio di misericordia, vedrai, sarai contento”. E’ la “Preghiera in gennaio” di tutti quelli che hanno amato Fabrizio De Andre’.
La carriera quasi quarantennale di Fabrizio De André è stata degnamente ricordata nel triplo box In direzione ostinata e contraria (2005): cinquantaquattro brani, tutti “demasterizzati”, per riassaporare l’aroma originario, imperfezioni incluse.
Il giorno 8 febbraio 1888 nasce ad Alessandria d’Egitto il grande poeta Giuseppe Ungaretti, da Antonio Ungaretti e Maria Lunardini entrambi lucchesi. Nella città natale trascorre l’infanzia e i primi anni della giovinezza. La famiglia si era infatti trasferita in Africa per ragioni di lavoro. Suo padre, però, che lavorava come operaio alla costruzione del canale di Suez, muore in un incidente; la madre è così costretta ad arrangiarsi ma riesce a mandare avanti la famiglia grazie ai guadagni di un negozio della periferia di Alessandria. Il piccolo Giuseppe viene dunque allevato dalla madre, da una balia sudanese e da Anna, un’anziana croata, adorabile narratrice di favole.
Ormai cresciuto, frequenta l’Ecole Suisse Jacot, dove viene a contatto per la prima volta con la letteratura europea. Nel tempo libero frequenta anche la “Baracca rossa”, un ritrovo internazionale di anarchici che ha come fervente organizzatore Enrico Pea, versiliese, trasferitosi a lavorare in Egitto.
Si trasferisce in Italia con l’intenzione di andare in Francia per compiere studi di diritto a Parigi, per poi tornare in Egitto. A poche settimane di distanza si reca finalmente a Parigi, raggiunto poi da Mohammed Sceab, che muore però suicida qualche mese dopo. Si iscrive alla facoltà di lettere della Sorbona e prende alloggio in un alberghetto in rue Des Carmes. Frequenta i maggiori caffè letterari di Parigi e diventa amico di Apollinaire, al quale si lega con profondo affetto.
Malgrado la sua lontananza dall’Italia rimane comunque in contatto con il gruppo fiorentino che, staccatosi dalla Voce, ha dato vita alla rivista “Lacerba”. Nel 1915 pubblica proprio su Lacerba le prime liriche. Viene però richiamato e inviato sul fronte del Carso e su quello francese dello Champagne. La prima poesia dal fronte è datata 22 dicembre 1915. Trascorre l’intero anno successivo tra prima linea e retrovie; scrive tutto il “Porto Sepolto”, che viene pubblicato presso una tipografia di Udine. Curatore degli ottanta esemplari è “il gentile Ettore Serra”, giovane tenente. Ungaretti si rivela poeta rivoluzionario, aprendo la strada all’ermetismo. Le liriche sono brevi, a volte ridotte ad una sola preposizione, ed esprimono forti sentimenti.
Torna a Roma e su incarico del Ministero degli Esteri si dedica alla stesura del bollettino informativo quotidiano. Intanto collabora alle riviste La Ronda, Tribuna, Commerce. La moglie nel frattempo insegna francese. La difficile condizione economica lo induce a trasferirsi a Marino nei Castelli Romani. Pubblica a La Spezia una nuova edizione de “L’Allegria”; include le liriche composte tra il 1919 e il 1922 e la prima parte del “Sentimento del Tempo”. La prefazione è di Benito Mussolini. La raccolta segna l’inizio della sua seconda fase poetica. Le liriche sono più lunghe e le parole più ricercate.
Con il premio del Gondoliere del 1932, assegnato a Venezia, la sua poesia ha il primo riconoscimento ufficiale. Si aprono le porte dei grandi editori. Pubblica ad esempio con Vallecchi “Sentimento del Tempo” (con un saggio di Gargiulo) e dà alle stampe il volume “Quaderno di traduzioni” che comprende testi di Gòngora, Blake, Eliot, Rilke, Esenin. Il Pen Club lo invita a tenere una serie di lezioni in Sud America. In Brasile gli viene assegnata la cattedra di Letteratura Italiana presso l’Università di San Paolo, che terrà fino al 1942. Esce l’edizione compiuta del “Sentimento del Tempo”.
Nel 1937 una prima tragedia familiare colpisce Ungaretti: muore il fratello Costantino, per il quale scrive le liriche “Se tu mio fratello” e “Tutto ho perduto”, apparse successivamente in francese in “Vie d’un homme”.
Da lì a poco, per un attacco di appendicite malcurato, muore in Brasile anche il figlio Antonietto, di soli nove anni.
Rientrato in patria è nominato Accademico d’Italia e gli viene conferito un insegnamento universitario a Roma per “chiara fama”. Mondadori inizia la pubblicazione delle sue opere sotto il titolo generale “Vita d’un uomo”.
Gli viene consegnato da Alcide De Gasperi il premio Roma; escono il volume di prosa “Il povero nella città” e alcuni abbozzi di “La Terra Promessa”. La rivista Inventario pubblica il suo saggio “Ragioni di una poesia”.
Gli ultimi anni di vita del poeta sono intensissimi. E’ eletto presidente della Comunità europea degli scrittori e tiene, come visiting professor presso la Columbia University una serie di lezioni, stringendo fra l’altro amicizia con letterati e pittori beat del Village newyorkese.
In occasione degli ottant’anni riceve solenni onoranze da parte del governo italiano: a Palazzo Chigi è festeggiato dal presidente del Consiglio Aldo Moro, e da Montale e Quasimodo, con tanti amici attorno. Escono due edizioni rare: “Dialogo”, libro accompagnato da una “combustione” di Burri, piccola raccolta di poesie d’amore e “Morte delle stagioni”, illustrata da Manzù, che raccoglie unite le stagioni della “Terra Promessa”, del “Taccuino del Vecchio” e gli ultimi versi fino al 1966.
Viaggia negli Stati Uniti, in Svezia, in Germania. Nel settembre esce il volume mondadoriano che comprende tutte le poesie, con note, saggi, apparati delle varianti, a cura di Leone Piccioni.
Nella notte tra il 31 dicembre 1969 e il giorno 1 gennaio 1970 scrive l’ultima poesia “L’impietrito e il velluto”. Torna negli Stati Uniti per ricevere un premio all’Università di Oklahoma. A New York si ammala e viene ricoverato in clinica. Rientra in Italia e si stabilisce per curarsi a Salsomaggiore. Muore a Milano nella notte tra l’1 e il 2 giugno 1970.
José de Sousa Saramago nasce ad Azinhaga, in Portogallo il 16 novembre 1922. Trasferitosi a Lisbona con la famiglia in giovane età, abbandonò gli studi universitari per difficoltà economiche, mantenendosi con i lavori più diversi. Ha infatti lavorato come fabbro, disegnatore, correttore di bozze, traduttore, giornalista, fino a impiegarsi stabilmente in campo editoriale, lavorando per dodici anni come direttore letterario e di produzione. Il suo primo romanzo, “Terra del peccato”, del 1947, non riceve un grande successo nel Portogallo oscurantista di Salazar, il dittatore che Saramago non ha mai smesso di combattere, ricambiato con la censura sistematica dei suoi scritti giornalistici. Nel 1959 si iscrive al Partito Comunista Portoghese che opera nella clandestinità sfuggendo sempre alle insidie ed alle trappole della famigerata Pide, la polizia politica del regime. In effetti, bisogna sottolineare che per capire la vita e l’opera di questo scrittore non si può prescindere dal costante impegno politico che ha sempre profuso in ogni sua attività.
Negli anni sessanta, diventa uno dei critici più seguiti del Paese nella nuova edizione della rivista “Seara Nova” e nel ’66 pubblica la sua prima raccolta di poesie “I poemi possibili”. Diventa quindi come detto direttore letterario e di produzione per dodici anni di una casa editrice e, dal 1972 al ’73, è curatore del supplemento culturale ed editoriale del quotidiano “Diario de Lisboa”
Sino allo scoppio della cosiddetta Rivoluzione dei Garofani, nel ’74, Saramago vive un periodo di formazione e pubblica poesie (“Probabilmente allegria”, 1970), cronache (“Di questo e d’altro mondo”, 1971; “Il bagaglio del viaggiatore”, 1973; “Le opinioni che DL ebbe”, 1974) testi teatrali, novelle e romanzi. Il secondo Saramago (vice direttore del quotidiano “Diario de Noticias” nel ’75 e quindi scrittore a tempo pieno), libera la narrativa portoghese dai complessi precedenti e dà l’avvio ad una generazione post-rivoluzionaria.
Nel 1977 lo scrittore pubblica il lungo e importante romanzo romanzo “Manuale di pittura e calligrafia”, seguito nell’ottanta da “Una terra chiamata Alentejo”, incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più ad Est del Portogallo. Ma è con “Memoriale del convento” (1982) che ottiene finalmente il successo tanto atteso.
In sei anni pubblica tre opere di grande impatto (oltre al Memoriale, “L’anno della morte di Riccardo Reis” e “La zattera di pietra”) ottenendo numerosi riconoscimenti.
Gli anni Novanta lo consacrano sulla scena internazionale con “L’assedio di Lisbona” e “Il Vangelo secondo Gesù”, e quindi con “Cecità”. Ma il Saramago autodidatta e comunista senza voce nella terra del salazarismo non si è mai fatto avvincere dalle lusinghe della notorietà conservando una schiettezza che spesso può tradursi in distacco. Meno riuscito è il Saramago saggista, editorialista e viaggiatore, probabilmente frutto di necessità contingenti, non ultima quella di tenere vivo il suo nome sulla scena letteraria contemporanea. Nel 1998, sollevando un vespaio di polemiche soprattutto da parte del Vaticano, gli è stato conferito il Nobel per la letteratura.
José Saramago muore il giorno 18 giugno 2010 nella sua residenza a Lanzarote, nella località di Tías, sulle Isole Canarie.
Marina Ivanovna Cvetaeva, o Svetaeva, in russo: Мари́на Ива́новна Цвета́ева, pronunciato Zvetàieva (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941), è stata una poetessa e scrittrice russa.
Fu una delle voci più originali della poesia russa del XX secolo e l’esponente più di spicco del locale movimento simbolista; il suo lavoro non fu ben visto dal regime staliniano, anche per via di opere scritte negli anni venti che glorificavano la lotta anticomunista dell’”armata bianca”, in cui il marito Sergej Jakovlevič Efron militava come ufficiale; quest’ultimo, insieme al figlio e alla stessa Cvetaeva lasciarono Parigi per Mosca nel 1939, per poi venire arrestati e sparire. La poetessa rimasta sola, smarrita, una domenica d’estate del 1941 s’impicca nella camera che ha affittato nella casetta di due pensionati. La riabilitazione della sua opera letteraria avvenne solo a partire dagli anni sessanta, vent’anni dopo la sua morte.
Marina Ivanovna Cvetaeva, nacque a Mosca l’8 ottobre 1892, da Ivan Vladimirovic Cvetaev (1847-1913, filologo e storico dell’arte, creatore e direttore del Museo Rumjancev, oggi Museo Pushkin) e della sua seconda moglie, Marija Mejn, pianista di talento, polacca per parte di madre. Marina trascorse l’infanzia, insieme alla sorella minore Anastasija (detta Asja) e ai fratellastri Valerija e Andrej, figli del primo matrimonio del padre, in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali. A soli sei anni cominciò a scrivere poesie.
Marina ebbe dapprima una istitutrice, poi fu iscritta al ginnasio, quindi, quando la tubercolosi della madre costrinse la famiglia a frequenti e lunghi viaggi all’estero, frequentò degli istituti privati in Svizzera e Germania (1903-1905) per tornare, infine, dopo il 1906, in un ginnasio moscovita. Ancora adolescente la Cvetaeva rivelò un carattere imperiosamente autonomo e ribelle; agli studi preferiva intense e appassionate letture private: Pushkin, Goethe, Heine, Hölderlin, Hauff, Dumas-padre, Rostand, la Baskirceva, ecc. Nel 1909 si trasferì da sola a Parigi per frequentare lezioni di letteratura francese alla Sorbona. Il suo primo libro, “Album serale”, pubblicato ne 1910, conteneva le poesie scritte tra i quindici e i diciassette anni. Il libretto uscì a sue spese e in tiratura limitata, ciò nonostante fu notato e recensito da alcuni tra i più importanti poeti del tempo, come Gumiliov, Briusov e Volosin.
Volosin, inoltre, introdusse la Cvetaeva negli ambienti letterari, in particolare in quelli gravitanti attorno alla casa editrice “Musaget”. Nel 1911 la poetessa si recò per la prima volta nella famosa casa di Volosin a Koktebel’. Letteralmente, ogni scrittore russo di fama negli anni 1910-1913 soggiornò almeno una volta a casa Volosin, una sorta di ospitale casa-convitto. Ma un ruolo determinante nella sua vita lo ebbe Sergej Efron, un apprendista letterato che la Cvetaeva incontrò a Koktebel’ durante la sua prima visita. In una breve nota autobiografica del 1939-40, così scriveva: “Nella primavera del 1911 in Crimea ospite del poeta Max Volosin incontro il mio futuro marito, Sergej Efron. Abbiamo 17 e 18 anni. Decido che non mi separarerò da lui mai più in vita mia e che divento sua moglie.” Cosa che puntualmente successe, pur contro il parere del padre di lei.
Di lì a poco comparve la sua seconda raccolta di liriche, “Lanterna magica”, e nel 1913 “Da due libri”. Intanto, il 5 settembre 1912, era nata la prima figlia, Ariadna (Alja). Le poesie scritte dal 1913 al 1915 avrebbero dovuto vedere la luce in un volume, “Juvenilia”, che restò inedito durante la vita della Cvetaeva. L’anno dopo, in seguito a un viaggio a Pietroburgo (il marito si era intanto arruolato come volontario su un treno sanitario), si rafforzò l’amicizia con Osip Mandel’stam che però ben presto si innamorò perdutamente di lei, seguendola da S.Pietroburgo a Aleksandrov, per poi improvvisamente allontanarsi. La primavera del 1916 è divenuta infatti celebre in letteratura grazie ai versi di Mandel’stam e della Cvetaeva….
Durante la rivoluzione di Febbraio del 1917 la Cvetaeva si trovava a Mosca e fu dunque testimone della sanguinosa rivoluzione bolscevica di ottobre. La seconda figlia, Irina, nacque in aprile. A causa della guerra civile si trovò separata dal marito, che si unì, da ufficiale, ai bianchi. Bloccata a Mosca, non lo vide dal 1917 al 1922. A venticinque anni, dunque, era rimasta sola con due figlie in una Mosca in preda ad una carestia così terribile quale mai si era vista. Tremendamente poco pratica, non le riuscì di conservare il posto di lavoro che il partito le aveva “benevolmente” procurato. Durante l’inverno 1919-20 si trovò costretta a lasciare la figlia più piccola, Irina, in un orfanotrofio, e la bambina vi morì nel febbraio per denutrizione. Quando la guerra civile ebbe fine, la Cvetaeva riuscì nuovamente a entrare in contatto con Sergej Erfron e acconsentì a raggiungerlo all’Ovest.
Nel maggio del 1922 emigrò e si recò a Praga passando per Berlino. La vita letteraria a Berlino era allora molto vivace (circa settanta case editrici russe), consentendo in questo modo ampie possibilità di lavoro. Nonostante la propria fuga dall’Unione Sovietica, la sua più famosa raccolta di versi, “Versti I” (1922) fu pubblicato in patria; nei primi anni la politica dei bolscevichi in campo letterario era ancora abbastanza liberale da consentire ad autori come la Cvetaeva di essere pubblicati sia al di qua che oltre frontiera.
A Praga La Cvetaeva visse felicemente con Efron dal 1922 al 1925. Nel febbraio 1923 nacque il terzo figlio, Mur, ma in autunno partì per Parigi, dove trascorse con la famiglia i successivi quattordici anni. Anno dopo anno, tuttavia, fattori diversi contribuirono ad un grande isolamento della poetessa e ne comportarono l’emarginazione.
Ma la Cvetaeva non conosceva ancora il peggio di quello che doveva venire: Efron aveva infatti cominciato a collaborare con la GPU. Fatti ormai noti a tutti, mostrano che egli prese parte al pedinamento e all’organizzazione dell’uccisione del figlio di Trotskij, Andrej Sedov, e di Ignatij Rejs, un agente della CEKA. Efron si andò così a nascondere nella Spagna repubblicana in piena guerra civile, da dove partì per la Russia. La Cvetaeva spiegò alle autorità e agli amici di non avere mai saputo nulla delle attività del marito, e si rifiutò di credere che il marito potesse essere un omicida.
Sempre più immersa nella miseria, si decise, anche sotto la pressione dei figli desiderosi di rivedere la patria, a tornare in Russia. Ma nonostante alcuni vecchi amici e colleghi scrittori venissero a salutarla, ad esempio Krucenich, capì in fretta che per lei in Russia non c’era posto nè vi erano possibilità di pubblicazione. Le furono procurati dei lavori di traduzione, ma dove abitare e cosa mangiare restavano un problema. Gli altri la sfuggivano. Agli occhi dei russi dell’epoca lei era una ex emigrata, una traditrice del partito, una che aveva vissuto all’Ovest: tutto questo in un clima in cui milioni di persone erano state sterminate senza che avessero commesso alcunché, tanto meno presunti “delitti” come quelli che gravavano sul conto della Cvetaeva. L’emarginazione, dunque, si poteva tutto sommato considerare il minore dei mali.
Nell’agosto del 1939, però, sua figlia venne arrestata e deportata nei gulag. Ancora prima era stata presa la sorella. Quindi venne arrestato e fucilato Efron, un “nemico” del popolo ma, soprattutto, uno che sapeva troppo. La scrittrice cercò aiuto tra i letterati. Quando si rivolse a Fadeev, l’onnipotente capo dell’Unione degli scrittori, egli disse alla “compagna Cvetaeva” che a Mosca non c’era posto per lei, e la spedì a Golicyno. Quando l’estate successiva cominciò l’invasione tedesca, la Cvetaeva venne evacuata ad Elabuga, nella repubblica autonoma di Tataria, dove visse momenti di disperazione e di desolazione inimmaginabili: si sentiva completamente abbandonata. I vicini erano i soli che l’aiutassero a mettere insieme le razioni alimentari.
Dopo qualche giorno si recò nella città vicina di Cistopol’, dove vivevano altri letterati; una volta lì, chiese ad alcuni scrittori famosi come Fedin e Aseev di aiutarla a trovare lavoro e a trasferirsi da Elabuga. Non avendo ricevuto da loro alcun aiuto, tornò a Elabuga disperata. Mur si lamentava della vita che conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava appena per due pagnotte. La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta.
Nazim Hikmet. Salonicco, 20 novembre 1902 (per l’anagrafe ma nato in realtà nel 1901) – Mosca, 3 giugno 1963.
Nazim Hikmet nacque a Salonicco nel 1901, città della quale il nonno paterno era stato governatore. Il padre Nazim Hikmet Bey (già console ad Amburgo) era funzionario di stato e la madre, Aisha Dshalila, pittrice. Studiò nel liceo di lingua francese di Galatasaray (Istanbul) e successivamente si iscrisse all’Accademia della Marina militare che dovette però lasciare per ragioni di salute. Fu esponente di spicco della cultura turca del ’900 ed uno dei primi poeti, in quel paese, ad adottare il verso libero. Divenuto, in vita, uno dei poeti turchi più conosciuti in occidente (e per comune accordo indicato come il primo poeta turco moderno), le sue opere sono state tradotte in più di cinquanta lingue.
Durante la Guerra di Indipendenza si schierò con Kemal Atatürk (Mustafa Kemal) in Anatolia, ma rimase presto deluso dagli ideali nazionalisti e durante l’occupazione alleata della Turchia lavorò come insegnante a Bolu, nella parte orientale del paese. Nel 1922, condannato per marxismo (si iscrisse al partito comunista turco all’inizio degli anni ’20) e malvisto per la pubblica denuncia dei massacri armeni del 1915-1922, dovette trasferirsi in Russia in esilio volontario; paese verso il quale lo spinse certamente anche il fascino della recente rivoluzione d’Ottobre. Qui studiò sociologia presso l’Università di Mosca dove conobbe artisti e letterati di tutta Europa (la delusione per il sostanziale fallimento dell’esperimento comunista era ancora in là da venire…).
Rientrato clandestinamente in Turchia dopo la fine della Guerra di Indipendenza (1924) iniziò a collaborare con il giornale di sinistra Ankara Independence Tribunal. Condannato “in absencia” a quindici anni di lavori forzati per la sua opposizione al regime e per propaganda comunista, riuscì nuovamente a fuggire in Russia nel 1926, dove riprese a lavorare ed a pubblicare poesie ed opere teatrali (conobbe, tra gli altri, Majakowsky, la cui poesia futurista lo avrebbe lungamente influenzato). Poté tornare in Turchia soltanto nel 1928, a seguito dell’amnistia generale, ma, una volta in patria, dato che il partito comunista era stato dichiarato fuorilegge, si trovò sotto costante sorveglianza da parte della polizia e dei servizi segreti; continuamente incarcerato per una serie di reati spesso totalmente pretestuosi (una volta, ad esempio, fu arrestato per affissione illegale di manifesti politici).
Nel 1938 fu nuovamente arrestato, per attività anti-naziste e anti-franchiste e con l’accusa di aver tentato di incitare, con le sue opere, la marina turca alla rivolta. Questa volta la condanna fu molto dura: 28 anni di carcere (a dimostrare che, a torto o a ragione, il potere teme più la penna che la spada…). In prigione, dove sarebbe rimasto per quattordici anni, scrisse le sue opere più belle, tra cui il capolavoro assoluto “Paesaggi Umani” (1941-1945). In questi anni il tono della sua poesia si fa più diretto e serio, il verso si affina e si fa essenziale. Non avrebbe però mai più visto un suo libro pubblicato sul suolo turco e quel che poté circolare, stampato all’estero, lo fece sempre clandestinamente. Ancora in carcere, divorziò dalla seconda moglie per sposare la traduttrice Münevver Andaç.
Rimesso in libertà nel 1949 per intercessione di una commissione internazionale che comprendeva, tra gli altri, Jean-Paul Sartre e Pablo Ricasso e dopo uno sciopero della fame di diciotto giorni reso ancora più drammatico dal recente attacco cardiaco, Hikmet ricevette nel 1950 il premio Nobel per la Pace; ma già l’anno successivo fu costretto a fuggire a Mosca.
Drammatica decisione presa, come ebbe a scrivere all’amica Simone De Beauvoir, dopo il fallimento di due tentativi governativi di assassinarlo investendolo in automobile e dopo aver appreso la notizia di essere stato forzatamente arruolato nell’esercito e destinato al fronte con la Russia. Racconta Hikmet che il medico militare incaricato di visitarlo gli disse: “Lei non è in condizione di sopravvivere più di un’ora sotto il sole del deserto, eppure io ho pronto per lei un certificato di buona salute”. Il poeta aveva ormai cinquant’anni e soffriva le pesanti conseguenze dell’attacco cardiaco subito in carcere e che lo avrebbe portato alla morte nell’arco di un decennio. Anche la fuga da Istanbul fu decisamente avventurosa: Hikmet tentò di attraversare il Bosforo su una piccola barca a motore in una notte di tormenta (come ebbe a dichiarare in seguito, nelle notti serene c’erano troppe guardie per passare inosservati), il piano originale prevedeva lo sbarco in Bulgaria, cosa però che si dimostrò impossibile date le condizioni del mare. Fortunatamente, dopo alcune ore di navigazione, incrociò una nave rumena.
A Mosca gli fu assegnato un alloggio nella colonia di scrittori di Peredelkino, ma il governo turco rifiutò sempre di concedere alla moglie ed al figlio il permesso di raggiungerlo. Nonostante un secondo attacco cardiaco, nel 1952, Hikmet viaggiò molto in quegli anni; attraverso l’Europa, il Sud America e l’Africa. Solo gli Stati Uniti gli rifiutarono, sempre, il visto. Ma era l’epoca della Guerra Fredda…
Dopo che gli fu tolta la cittadinanza Turca (1959), accettò l’offerta di un passaporto da parte del governo Polacco, dichiarando di aver ereditato i capelli rossi e gli occhi chiari da un progenitore (un rivoluzionario del XVII secolo) che veniva, appunto, da quel paese. Nel 1960, di nuovo a Mosca, si sposò – per la quarta volta – con la giovane Vera Tuljakova. Sempre a Mosca sarebbe morto, per una nuova crisi cardiaca, nel 1963, a 62 anni d’età.
Le opere di N.H. riapparirono brevemente in Turchia soltanto nel periodo 1965-1966 per poi scomparire nuovamente e per sempre dai cataloghi degli editori (salvo edizioni minori o in piccola tiratura). Questo, nonostante nel resto del mondo esse siano state ristampate e tradotte innumerevoli volte.
Per Nazim Hikmet la poesia d’amore non è mai soltanto poesia d’amore, egli riassume nella parola “amore” l’esistenza, la politica (intesa come necessaria interazione sociale con il resto del mondo), la vita stessa. Riesce a parlare, ad un tempo, di sé stesso, del suo paese e del mondo in un singolo verso, con una semplicità (apparente) ed una capacità di sintesi che lo collocano, di diritto, tra i grandi poeti del secolo XX. Così come l’uso lirico e musicale della lingua riscatta al livello di poesia anche il verso che, nelle mani di un artefice meno abile, si trasformerebbe tristemente in propaganda.
Mai introspettivo, sempre concreto, positivo, spesso capace di abbandonarsi alle piccole gioie della vita con lo spirito di un bambino, senza però perdere la consapevolezza dell’adulto; mantiene, nella produzione artistica come nella vita, una coerenza unica. Coerenza che, forse, spaventò i suoi persecutori assai più di quel che effettivamente avrebbe potuto la sua poesia. Se essi, comunque, videro davvero nella sua opera un possibile incitamento alla rivolta dei militari, la causa deve essere cercata più nell’esempio morale dato dall’uomo che nella perfezione (pure presente) del verso.
Con gli anni la poesia si fa più coesa, compatta, quasi sincopata. La punteggiatura scompare totalmente, come se fosse un freno, un impiccio del quale il poeta vuole liberarsi per adattare il verso alla necessità di fare, vedere, viaggiare, vivere sempre più rapidamente gli ultimi istanti di una vita che volge, rapidamente, al termine. Bruciata da uno spirito più forte del corpo che lo ospita, sprecata nel tentativo impossibile di recuperare i lunghi anni di carcere.
In lui si concretizza la concezione dell’artista che non può vivere una vita disgiunta (o dissonante) rispetto a quelle che sono le sue convinzioni etiche e politiche (condivisibili o meno). Questa concezione della poesia come guida della vita, essenza che permea ogni decisione ed ogni gesto (ma sempre concreta e semplice, mai artificiosa) lega l’arte alla realtà e la salva, impedendole di finire relegata in un angolo marginale della modernità, etichettata come frivola ed inutile. Un concetto che, pur partendo dalle medesime basi (o quasi) arriva ad una risposta diametralmente opposta a quella data dal decadentismo di D’Annunzio e della generazione che chiamiamo dannunziana, dove pure l’arte permea la vita, ma trasformandosi in posa, ricercatezza astratta, effimera. Ci sono punti di contatto con l’asciutta, virile disperazione di un Ungaretti, ma c’è anche un anelito all’azione, uno spirito positivo (nonostante tutto e contro tutto), un coerente rifiuto della resa che rende unica l’opera e la vita di Hikmet. Se poi Hikmet sia stato un uomo virtuoso, occasionalmente artista, oppure vero artista, e perciò virtuoso, è cosa che ciascuno dovrà giudicare da sé.
Nina Cassian, pseudonimo di Renée Annie Cassian-Mătăsaru (Galaţi, 27 novembre 1924 – New York, 15 aprile 2014), è stata una poetessa, scrittrice e traduttrice romena.
Tra il 1926 e il 1935 vive e studia a Braşov, successivamente si trasferità a Bucarest dove terminerà gli studi liceali. Nella capitale inizia a frequentare corsi di recitazione con l’attrice Beate Fredanov, la scuola di pittura diretta dall’artista M.H. Maxy e studiare il pianoforte con il musicista Constantin Silvestri.
Nel 1943 sposa lo scrittore Vladimir Colin da cui divorzierà nel 1948, per sposarsi con il critico letterario Al. I. Stefanescu.
Nel 1944 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, ma non completerà mai gli studi universitari. Nel 1945 pubblica la sua prima poesia sul giornale România liberă, seguita a due anni di distanza dal volume La scară 1/1, opera stilisticamente vicina all’espressività delle avanguardie artistiche e per questo definita decadente dalla critica ufficiale comunista.
Negli anni successivi aderirà allo stile imposto dal regime scrivendo versi elogiosi verso il regime comunista e i suoi leader. A questo periodo risalgono le raccolte Sufletul nostru (1949), An viu – nouă sute și șaptesprezece (1949), Tinerețe (1953), Florile patriei (1954) e Versuri alese (1955). Solo nel 1957 con i volumi Vârstele anului e Dialogul vântului cu marea
La poetessa riapproderà a una poesia svincolata dalla celebrazione ideologica del regime comunista. Negli anni successivi si dedicherà a un’intensa attività poetica e alla produzione di libri per bambini. Nel 1969 riceve il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania.
Nel 1985 è invitata negli Stati Uniti a tenere un corso di “Creative Writting” all’Università di New York e decide di non rientrare più in Romania. Ha vissuto a New York fino alla morte, avvenuta il 15 aprile 2014, all’età di 89 anni, a seguito di un attacco cardiaco.
Ultima figura emblematica di una ormai classica tradizione modernista, erede e testimone di quel fecondo ambiente romeno di cui facevano parte Brancusi e Tzara, Ionesco, Eliade e Cioran, e come loro inevitabilmente esule, Nina Cassian ha percorso un tragitto artistico e umano singolare come la sua persona. Nel 1985, già titolare di una lunga carriera di successo (con qualche strappo al morso del regime), durante un soggiorno negli Stati Uniti finisce nel mirino della polizia, che ha scoperto certi suoi testi a dir poco caustici contro la politica e i politicanti del Paese: decide allora di non tornare in patria e chiede asilo politico. Qui, sostenuta e tradotta da vari poeti americani, rinasce a nuova vita. E la scelta, la riproposta, la traduzione, a volte la vera e propria ricreazione delle poesie romene precedenti l’esilio, nonché la stesura di nuovi componimenti – in romeno prima, e dopo qualche anno anche in inglese -, alimenteranno un corpus che non ha riscontri, né rivali, nell’odierno panorama poetico internazionale. Si avvertono, nella voce della Cassian, echi ravvicinati di tutta la più nobile stagione del Novecento: da Mandel’stam a Cvetaeva, da Apollinaire a Brecht a Celan, e si potrebbe risalire fino a Emily Dickinson, “sublime sorella”, o
anche più indietro, all’amoroso “furor” saffico.
L’esilio è per la poesia come una nutrice austera. In esso i fuochi della lingua materna brillano più chiari, il mondo diventa un unico grandioso mistero. Anche Nina Cassian, romena, si è abbeverata a questa fonte oscura, ricavandone una densa lezione. La sua poesia era già ampiamente formata quando il tema del non-ritorno, della fuoriuscita è venuto a visitarla.
Nel 1985 era in viaggio negli Stati Uniti: allora nella sua Romania le rivelazioni di un dissidente arrestato e torturato la mettono in pericolo e la rendono un possibile bersaglio del regime. Così decise di non tornare indietro. Da allora è vissuta negli Stati Uniti, fino alla recente scomparsa (aprile 2014), esprimendosi dunque in romeno e in inglese («Solo un sibilo bilingue» dice della sua lingua) oltre che nelle parole inventate dello spargano.
C’è modo e modo di sparire, suona il titolo della scelta di testi presentati al lettore italiano (C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 304, euro 25,00). Nata nel 1924, la Cassian ha attraversato il secolo (che come Caproni vedeva ferito: «Ma non guarisco dalla ferita del secolo, dalla ferita del mondo»), anzi la sua poesia sembra per molti aspetti una specie di enciclopedia del Novecento, non solo letterario, ma anche artistico, a partire almeno dal surrealismo. Colori, pensiero, forme sembrano attinti a un unico misterioso bulicame caotico e zampillante (non per nulla la poetessa parla di un’«apocalisse ilare»): si tratta insomma, novecentescamente, di rifare il mondo, di immaginarlo a partire dall’esistente, rovesciando e inclinando le categorie, mescolando sogno e veglia, visione e vista.
Come nota Ottavio Fatica, curatore del volume e traduttore dei testi scritti in inglese (quelli in romeno sono tradotti da Anita Natascia Bernacchia), c’è prima di tutto un vasto bestiario nei versi della Cassian: dal cucciolo di squalo alla tigre con gli occhi gialli, dallo scoiattolo al mite asino. Quasi mai naturalistici in senso stretto, questi animali sono l’alfabeto di un universo da rifare. Infatti si tratta, come dice la poetessa, di «giocare alla Genesi», «perché qui come altrove tutto si rimescola».
Anche la musica entra nella nuova creazione, nel caotico convergere delle specie e delle arti (la Cassian si è anche dedicata a comporre musica e a dipingere): più che verso un’ampia sonata (si veda la lunga poesia su Bach), la Cassian ha tuttavia il respiro del testo medio e breve e soprattutto di quello epigrammatico, fino a sconfinare nell’aforisma. Lì sa dare il meglio del suo guizzo inventivo e arioso, con un tocco che ha forse qualche punto di contatto con la grande polacca Szymborska (sua quasi coetanea), nell’ironia, nella leggerezza, anche se intrise qui di onirico e magari di macabro.
Come non molti poeti moderni (viene in mente da noi il versante giocoso di Sanguineti) la Cassian gioca a farsi l’autoritratto, ne sorride (specie parlando del proprio naso), si diverte nell’autocaricatura, che è di nuovo, però, una ricetta di poesia all’insegna della commistione, dell’impurità, dell’invenzione fantastica e dell’antiretorica: «Mi è toccato questo volto strano, triangolare, / questo pan di zucchero o questa / polena degna di navi corsare / e capelli lunghi, lunari, sulla cresta. // Mi è toccato portare in giro un aggressivo contorno / errabondo da mane a sera che spesso / squarcia la retina di chi mi sta dintorno / quando proietto alla parete il mio incongruo essere». Così recitano le prime due quartine di Autoritratto, mentre la terza, la penultima, aggiunge: «A chi appartengo? Mi rinnegano antenati e genitori. / Temporaneamente alleate mi rinnegano le razze, / i bianchi, i gialli, i rossi e i neri. / Neppure la specie mi riconosce tutta d’un pezzo».
Invenzione e scherzo non tolgono serietà alla parola poetica, anzi ne sono il contraltare e la conferma, essa che è tutta protesa a «rendere felicità e dolore gradini della conoscenza».
La poesia, che imprigiona il mondo per ansia di conoscerlo e ricrearlo, ha un suo aldilà, può tentare – ancora alla Caproni – una preghiera paradossale ma non troppo («Se esisti per davvero – fatti avanti»), si tende da giovinezza a decrepitudine fino a un’ombra, un’idea di resurrezione. Da parola a parola, da soffio a sibilo, la poetessa arriva a pensare di risorgere nella lingua materna; a chiedere nella sua non convenzionale preghiera «- resuscitami».
Pablo Neruda,nome d’arte di Ricardo Eliezer Neftalí Reyes Basoalto (Parral, 12 luglio 1904 – Santiago del Cile, 23 settembre 1973), è stato un poeta, diplomatico e politico cileno, considerato una delle più importanti figure della letteratura latino americana contemporanea.
Scelse lo pseudonimo di Pablo Neruda, in onore dello scrittore e poeta cecoslovacco Jan Neruda, e che in seguito gli fu riconosciuto anche a livello legale. È stato insignito nel 1971 del Premio Nobel per la letteratura.
Ha anche ricoperto per il proprio Paese incarichi di primo piano diplomatici e politici. Inoltre è conosciuto per la sua adesione al comunismo (per cui subì censure e persecuzioni politiche, dovendo anche espatriare), la sua candidatura a Presidente del Cile nel 1970, e il successivo sostegno al socialista Salvador Allende. Morì in un ospedale di Santiago poco dopo il golpe di Pinochet nel 1973, ufficialmente di tumore ma in circostanze ritenute dubbie, mentre stava per partire per un nuovo esilio.
Ricardo Eliezer Reyes Basoalto nacque a Parral, in Cile, il 12 luglio del 1904, figlio di José del Carmen Reyes Morales, un impiegato delle ferrovie, e di Rosa Neftalí Basoalto Opazo, un’insegnante, che morì di tubercolosi quando il piccolo Pablo non aveva che un mese di vita. Nel 1906, all’età di due anni, il futuro poeta si trasferì col padre nella città di Temuco, dove ben presto il genitore convolò a nozze con Trinidad Candia Marverde (una donna che il giovane Pablo soleva chiamare “Mamadre” e a cui dedicò anche alcune sue poesie), già madre di un figlio di nove anni più vecchio, Rodolfo, con la quale il padre ebbe una figlia, Laurita. Il giovane Neruda, al quale il padre aggiunse all’anagrafe il nome Neftalí, dal secondo nome della madre defunta (con cui, tra l’altro, veniva spesso chiamato dai familiari), dimostrò un interesse per la scrittura e la letteratura, avversato dal padre stesso ma incoraggiato dalla futura vincitrice del Premio Nobel Gabriela Mistral, che fu sua insegnante durante il periodo di formazione scolastica. Il suo primo lavoro ufficiale come scrittore fu l’articolo “Entusiasmo y perseverancia”, pubblicato ad appena 13 anni sul giornale locale “La Mañana” diretto dallo zio adottivo. Nel 1920 iniziò ad utilizzare per le sue pubblicazioni lo pseudonimo di Pablo Neruda, in omaggio a Jan Neruda, con cui è tutt’oggi pressoché esclusivamente conosciuto, in modo di poter scrivere poesie senza che il padre (il quale riteneva quest’arte un’attività poco “rispettabile”) lo scoprisse.
L’anno successivo, il 1921, si trasferì a Santiago per studiare la lingua francese e con l’intenzione iniziale di diventare in seguito insegnante, idea ben presto abbandonata per la poesia.
Nel 1923 pubblicò il suo primo volume in versi, Crepusculario, che fu apprezzato da scrittori come Alone, Raúl Silva Castro e Pedro Prado, seguito, a distanza di un anno, da Veinte poemas de amor y una canción desesperada, una raccolta di poesie d’amore, di stile modernista, e di stile erotico, motivo che spinse alcuni a rifiutarlo. Con questa raccolta è stato riconosciuto e tuttora essa è una delle sue opere maggiormente apprezzate.
Neruda si ritrovò in una condizione di povertà che lo costrinse ad accettare nel 1927 un incarico di console onorario nel Sudest asiatico, in Birmania, seguito da altri innumerevoli incarichi. Sull’isola di Giava sposò la banchiera olandese Maryka Antonieta Hagenaar Vogelzang.
Durante i suoi incarichi diplomatici, Neruda riuscì a comporre un gran numero di poesie, sperimentando varie forme poetiche tra cui quelle surrealistiche che si possono trovare nei primi due volumi di Residencia en la tierra che risalgono a questo periodo.
Prima di ritornare in Cile, ottenne altre destinazioni diplomatiche, dapprima a Buenos Aires, quindi in Spagna, a Barcellona, dove in seguito sostituì Gabriela Mistral nella carica di console a Madrid. In questo periodo conobbe altri scrittori come Rafael Alberti, Federico García Lorca e il poeta peruviano César Vallejo. Durante la permanenza nella capitale spagnola nacque la figlia Malva Marina Trinidad, affetta da idroencefalite di cui morì in tenera età. Sarà proprio lo stato di frustrante prostrazione ed incurabilità dell’unica figlia avuta dal poeta la causa vera dei dissapori sempre più insopprimibili che portarono ad una crisi familiare con la Hagenaar, che giunse al culmine a seguito della frequentazione di Neruda con Delia del Carril, argentina, di vent’anni più anziana di lui. Appassionata fautrice del comunismo, fu lei ad indirizzare l’iniziale tendenza anarco-individualista di Neruda verso gli ideali marxisti.
L’abbraccio delle idee comuniste e di solidarietà civile trovò ulteriore humus per Neruda anche nella repulsione che provava nei confronti dei soprusi compiuti dai fascisti di Francisco Franco durante gli anni della guerra civile spagnola. La sua “svolta a sinistra” fu ancora più decisa dopo la barbara uccisione, da parte delle forze del generale Franco, di Federico García Lorca, di cui era divenuto amico: l’appoggio di Neruda al fronte repubblicano, che si opponeva all’allora nascente dittatura franchista, fu totale, sia nei discorsi che negli scritti, come, ad esempio, la raccolta di poesie España en el corazón.
In seguito all’elezione a presidente del Cile di Pedro Aguirre Cerda nel 1938, di cui Neruda era stato sostenitore, il poeta ricevette l’incarico di far evacuare dai campi francesi i 2.000 esiliati spagnoli, per i quali organizzò un trasferimento via mare in Cile utilizzando la nave Winnipeg. In questa occasione gli venne rimproverato di aver privilegiato gli sfollati di fede comunista a scapito degli altri, anche se sembra che la scelta sulle persone da imbarcare fosse stata fatta principalmente dal presidente della repubblica spagnola in esilio, Juan Negrín. L’inconsistenza di queste rimostranze è poi ulteriormente dimostrata dal grande affetto con cui, ancora oggi, è largamente ricordato in Francia.
Tra il 1940 e il 1943 gli venne assegnato l’incarico di console generale a Città del Messico e fu in questi anni che divorziò dalla prima moglie, si sposò con Delia del Carril e apprese della morte della figlia, a soli 8 anni, nei territori occupati dei Paesi Bassi.
Neruda aiutò il pittore messicano David Alfaro Siqueiros, accusato di essere uno dei cospiratori coinvolti nel tentativo di omicidio di Leon Trotsky nel 1940, facendogli ottenere un visto di ingresso per il Cile e dandogli ospitalità. Siqueiros dipinse in quel periodo un murale nella scuola di Chillán.
Nel 1943, durante il viaggio di ritorno a casa, si fermò in Perù, visitò Machu Picchu, e rimase molto colpito dalla città degli Inca, che gli ispirò, nel 1945, la scrittura di Alturas de Macchu Picchu, un poema in dodici parti sulla colonizzazione spagnola. Lo stesso argomento ispirò anche Canto general, pubblicato nel 1950, che contiene fortissimi accenti polemici contro il cosiddetto imperialismo statunitense (di cui, tra l’altro, denunciò gli abusi di multinazionali come la Coca-Cola).
Negli anni successivi, espresse la sua ammirazione per l’Unione Sovietica – anche per il ruolo decisivo svolto nella definitiva sconfitta della Germania nazista – e per Stalin, a cui nel 1953 dedicò una composizione, in occasione della morte. Le rivelazioni successive sul culto della personalità coltivato dal leader sovietico e sulle purghe staliniste (a partire dal celebre discorso di Nikita Khruščёv, successore di Stalin, durante il XX congresso del partito comunista sovietico di Mosca del febbraio 1956) spinsero Neruda a cambiare opinione e a rinnegare l’ammirazione espressa in precedenza: nelle sue memorie manifestò il suo rammarico per aver contribuito alla creazione di un’immagine non reale di Stalin. Questo errore di valutazione lo portò a guardare con occhio diverso anche il comunismo cinese, che conobbe nel 1957, temendo la ripetizione degli stessi errori anche nei confronti di Mao Tse-Tung. Nonostante le disillusioni, Neruda rimase comunque sempre fedele alle sue convinzioni comuniste e fu criticato da molti detrattori che lo accusarono di non aver mai preso posizione a favore degli intellettuali dissidenti Boris Pasternak e Joseph Brodsky.
Il 4 marzo 1945 ottenne la sua prima nomina ufficiale come senatore in seno al partito comunista delle province nordorientali del Cile di Antofagasta e Tarapacá, situate nell’inospitale deserto di Atacama, e pochi mesi dopo prese la tessera del Partito Comunista Cileno.
L’anno seguente, il candidato ufficiale del Partito Radicale Cileno per le elezioni presidenziali, Gabriel González Videla, gli chiese di assumere la direzione della sua campagna elettorale. A questo incarico il poeta si dedicò con fervore, contribuendo alla sua nomina a presidente, ma rimanendo deluso per l’inaspettato voltafaccia di Videla nei confronti proprio del Partito comunista subito dopo le elezioni. Il punto di non ritorno nel rapporto tra Neruda e Videla fu la violenta repressione con cui quest’ultimo colpì i minatori in sciopero nella regione di Bío-Bío, a Lota, dell’ottobre 1947. I manifestanti vennero imprigionati in carceri militari e in campi di concentramento nei pressi della città di Pisagua. La disapprovazione di Neruda culminò nel drammatico discorso del 6 gennaio 1948 davanti al senato cileno, chiamato in seguito “Yo acuso”, in cui lesse all’assemblea l’elenco dei minatori tenuti prigionieri.
La reazione di Videla fu l’emanazione di un ordine d’arresto contro Neruda, per sottrarsi al quale il poeta si vide costretto ad intraprendere un duro periodo – 13 mesi – di fuga, nascosto da amici e compagni. Inoltre, Videla promulgò anche la così detta “Ley de Defensa Permenente de la Democracia” (dai detrattori soprannominata invece “Ley maldita”), in base alla quale il Partito Comunista cileno venne dichiarato fuorilegge e oltre 26.000 iscritti vennero cancellati dalle liste elettorali, e i rappresentanti eletti, tra cui Neruda, vennero fatti decadere dalle cariche. Nel marzo 1949 riuscì a rifugiarsi in Argentina dopo un’avventurosa attraversata delle Ande, di cui raccontò nel discorso della cerimonia di consegna del Nobel.
Durante l’esilio argentino durato tre anni, conobbe a Buenos Aires Miguel Ángel Asturias, che ricopriva la carica di addetto culturale per il Guatemala e che riuscì a procurargli un passaporto grazie al quale poté abbandonare l’Argentina. Anche grazie all’aiuto di Pablo Picasso, Neruda riuscì ad arrivare a Parigi, compiendo un’apparizione a sorpresa al “Congresso Mondiale dei Partigiani della Pace”, clamorosa in quanto, nel frattempo il governo cileno aveva continuato a negare che Neruda avesse lasciato il territorio natio.
Furono, quelli dell’esilio, anche anni di numerosi viaggi: in Europa, India, Cina, URSS e Messico. Proprio in Messico, Neruda fu colpito da un serio attacco di flebite, strascico delle lunghe costrizioni in luoghi molto angusti cui l’aveva obbligato la latitanza; durante il periodo di cure, conobbe Matilde Urrutia, una cantante cilena, con cui iniziò una relazione e che anni dopo sposò.
Durante il periodo messicano pubblicò il poema Canto General, iniziato anni prima in Cile, in cui descrisse storia, geografia, flora e fauna del Sudamerica. Una versione più breve del manoscritto era stata pubblicata già alcuni mesi prima, in Cile, sulla base dei testi lì lasciati, a cura del Partito Comunista (clandestino per via della citata “Ley de defensa”).
Nel 1952, Neruda visse per un periodo in una villa messagli a disposizione da Edwin Cerio a Capri; tale permanenza venne in seguito rappresentata da Massimo Troisi nel film Il postino (1994) (con Philippe Noiret nelle vesti del poeta cileno, e diretto dal regista Michael Radford; sceneggiatura liberamente tratta dal romanzo Il postino di Neruda di Antonio Skarmeta).
Dopo il soggiorno a Capri, Neruda si spostò a Sant’Angelo d’Ischia, dove rimase dal gennaio alla fine di giugno del 1952.
Nel 1952, il governo del dittatore Videla era ormai al termine, colpito anche da numerosi scandali per corruzione, e il Partito Socialista presentò la candidatura a nuovo presidente di Salvador Allende, richiedendo contemporaneamente la presenza in patria del suo letterato più illustre al fine di avallarne al meglio l’investitura.
Neruda tornò in Cile in agosto, ritrovando provvisoriamente la moglie Delia del Carril, ma il matrimonio era ormai destinato al naufragio grazie anche alla nuova relazione iniziata in Messico. Di conseguenza, nel 1955, Delia lo lasciò per fare ritorno in Europa.
Tuttavia, l’abbandono di Delia non determinò per Neruda quello dell’impegno comunista. Neruda proseguì nel suo impegno politico, prese ad esempio posizione contro gli Stati Uniti durante la crisi dei missili di Cuba e per la guerra del Vietnam. Ciò gli attirò gli strali delle parti più conservatrici degli USA, e l’Associazione per la libertà della cultura, organizzazione dietro la quale in realtà si celava la CIA, cercò di minare in ogni modo la sua credibilità e la sua reputazione, citandone ad esempio le posizioni in merito al tentato assassinio di Trotsky del 1940. Questa campagna fu frenata solo nel 1964, quando fu ventilata l’ipotesi di insignire Neruda del Premio Nobel e l’unica candidatura alternativa era quella di Jean-Paul Sartre, personaggio ancora più inviso ai conservatori statunitensi.
Nel 1966 Neruda fu invitato a New York per una conferenza internazionale dell’associazione degli scrittori, ma Arthur Miller, organizzatore dell’evento, incontrò molte difficoltà e dovette fare notevoli pressioni sull’amministrazione Johnson sia per riuscire a fargli ottenere un visto, sia per la presenza di tanti altri letterati provenienti da oltre la cortina di ferro. Proprio per questi motivi, lo scrittore messicano Carlos Fuentes indicò successivamente il convegno come uno dei primi passi verso la fine della Guerra Fredda. A lavori conclusi, Neruda effettuò per la Biblioteca del Congresso registrazioni audio di alcune delle sue composizioni.
Durante il viaggio di ritorno in patria, Neruda fece una sosta in Perù, dove fu accolto con tutti gli onori dal presidente Fernando Belaúnde Terry, ma la visita fu mal vista da Cuba: in quegli anni i rapporti tra Perù e Cuba erano alquanto tesi a causa delle differenze politiche, Neruda fu accusato dagli intellettuali cubani di essere un revisionista al soldo degli Yankees e non poté recarsi sull’isola caraibica sino al 1968. Di ciò Neruda fu molto dispiaciuto tanto che nell’autobiografia Confesso che ho vissuto criticò l’atteggiamento degli intellettuali cubani, definendolo «bigotto» ed un «colpo alla schiena». Nel 1967, alla morte di Ernesto Che Guevara in Bolivia, Neruda scrisse molti articoli sulla perdita del “grande eroe della rivoluzione”, dalla cui stima era del resto ricambiato, come testimonia la composizione, da parte di Guevara, di un piccolo saggio elogiativo sul libro di Neruda Canto General.
Nel 1970, Neruda fu indicato come uno dei candidati alla carica di presidente della repubblica cilena, ma si ritirò dalla competizione elettorale appoggiando nuovamente Allende e aiutandolo a divenire il primo presidente socialista democraticamente eletto in Cile. Per circa due anni e mezzo riprese allora la carriera diplomatica presso la sede di Parigi, che dovette però lasciare per motivi di salute.
Il 21 ottobre 1971, ottenne, terzo scrittore dell’America Latina dopo Gabriela Mistral nel 1945 e Miguel Ángel Asturias nel 1967, il Premio Nobel per la letteratura. Al suo primo ritorno in patria, l’anno successivo, venne trionfalmente accolto in una manifestazione presso lo stadio di Santiago.
Di questi anni sono anche le sue ultime pubblicazioni in vita, La espada encendida e Las piedras del cielo, edite durante il soggiorno parigino. Prima di morire assistette al disfacimento del governo democratico cileno e al colpo di stato del generale Augusto Pinochet dell’11 settembre nonché alla morte del presidente Allende, suo amico personale. Insediatasi la dittatura, i militari cominciarono a vessarlo con le perquisizioni ordinate dal generale golpista; durante una di queste, Neruda avrebbe detto ai militari «Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia».
Il suo funerale fu uno dei primissimi momenti di opposizione alla dittatura, poiché avvenne nonostante la presenza ostile e intimidatoria dei militari a mitra spianato che guardavano a vista i partecipanti, come testimonia un filmato clandestino girato all’epoca. Fu, inoltre, un gesto di solidarietà e di ribellione contro l’ultimo sfregio nei confronti di Neruda, compiuto mentre giaceva nel letto d’ospedale: la devastazione, sempre per ordine di Pinochet, delle sue proprietà. La morte e le esequie di Neruda, chiamato nel libro “il Poeta”, sono ricordate da Isabel Allende nell’ultima parte del romanzo La casa degli spiriti.
L’ultima moglie pubblicò postuma l’autobiografia su cui Neruda aveva lavorato sino al giorno prima di morire, suscitando il risentimento di Pinochet per le dure critiche contro la brutalità della dittatura. Anche di Matilde Urrutia venne pubblicata, nel 1986, un’autobiografia sul periodo trascorso con Neruda, dal titolo Mi vida junto a Pablo Neruda; in Cile, le opere di Neruda vennero riabilitate e rimesse in commercio nel 1990, dopo la caduta della dittatura.
Le tre abitazioni possedute da Neruda in Cile, La Chascona a Santiago, La Sebastiana a Valparaiso, e la Casa de Isla Negra sono oggi musei, gestiti dalla Fondazione Neruda.
La salma di Neruda è stata riesumata dopo 40 anni dalla morte, l’ 8 aprile 2013 con l’obiettivo di chiarire il mistero sulla sua morte, cioè se è avvenuta per cause naturali o se si sia trattato di un omicidio. Lo ha disposto il Giudice cileno Mario Carroza nell’ambito dell’inchiesta basata sulle accuse di Manuel Araya, autista del poeta secondo il quale il grande poeta fu ucciso con un’iniezione letale durante il ricovero nell’ospedale di Santiago. L’ipotesi è stata per il momento smentita dal referto sugli esami radiologici e istologici effettuati sulla salma nei quali si evidenzia, come era noto già all’epoca, lo stato molto avanzato del suo tumore alla prostata. Per una prova definitiva si attende l’esito delle analisi tossicologiche ancora in corso presso i laboratori dell’Università della North Carolina, negli Stati Uniti. I sostenitori della tesi dell’assassinio, basandosi sulle testimonianze dell’epoca, affermano che Neruda non era in fin di vita, nonostante fosse gravemente malato, e che Pinochet avrebbe ordinato ad un sicario, un agente segreto della CIA collegato anche ad ambienti del neofascismo, Michael Townley, di accelerarne la morte con una non ben definita “iniezione allo stomaco” (secondo le parole di Neruda stesso all’autista, che raccontò che un medico era entrato e gli aveva praticato l’iniezione; il giorno dopo le sue condizioni peggiorarono improvvisamente e morì, prima della partenza per il nuovo esilio), per evitare che diventasse un leader dell’opposizione all’estero. Il giudice Carroza ha ordinato, sempre nel 2013, di rintracciare ed identificare il presunto killer di Neruda. Nel novembre 2013 il direttore del servizio medico legale cileno, Patricio Bustos, ha fatto analizzare la salma di Neruda concludendo che lo scrittore è morto a causa di un tumore alla prostata.
Oltre al Nobel, Neruda venne insignito nel 1953 del Premio Stalin per la Pace, onorificenza sovietica (che pochi anni dopo venne ridenominata Premio Lenin per la Pace, e con tale nome è più nota), e di una laurea honoris causa dall’Università di Oxford nel 1965.
Paul Marie Verlaine (Metz, 30 marzo 1844 – Parigi, 8 gennaio 1896) è stato un poeta francese.
Paul Verlaine
Figura del poeta maledetto, Verlaine viene riconosciuto come il maestro dei giovani poeti del suo tempo. La sua influenza sarà significativa ed i posteri accoglieranno questa arte poetica verlaineana, niente che vi è in lui pesa o posa, fatta di musicalità e della fluidità che gioca con i ritmi dispari.
Il tono di molte delle sue poesie che combinano spesso malinconia e chiaroscuro, rivela, al di là della forma efficace di semplicità, una sensibilità profonda, che risuona con gli approcci di alcuni pittori impressionisti e musicisti come Reynaldo Hahn e Claude Debussy, i quali saranno presenti nella musica delle poesie di Verlaine.
Jean Nicolas Arthur Rimbaud (Charleville, 20 ottobre 1854 – Marsiglia, 10 novembre 1891) è stato un poeta francese.
Pedro Pietri (Ponce, 21 marzo 1944 – 3 marzo 2004) è stato un poeta portoricano, tra i fondatori del Nuyorican Poets Cafe.
La famiglia di Pietri, di origini corse, si trasferì a New York nel 1947, quando egli aveva solo tre anni. Si stabilirono nella Spanish Harlem di Manhattan, dove Pedro ricevette l’educazione primaria e secondaria insieme al fratello Joe e alla sorella Diaz. Notevole fu l’influenza della zia, che recitava spesso poesie e occasionalmente organizzava spettacoli teatrali nella chiesa locale. Lo stesso Pietri iniziò a scrivere poesie quando era uno studente alla Haaven High School.
Dopo il diploma, Pietri trovò diversi impieghi finché non venne arruolato nell’Esercito degli Stati Uniti e mandato a combattere nella guerra del Vietnam. Le esperienze che dovette affrontare nell’Esercito e in Vietnam, oltre alla discriminazione che dovette subire a New York, divennero i maggiori fattori che avrebbero formato la sua personalità e lo stile della sua poesia.
In seguito al congedo dall’Esercito, Pietri si associò ad un gruppo di attivisti per i diritti civili dei portoricani chiamato Young Lords. Nel 1969, lesse per la prima volta la sua poesia più conosciuta, “Puerto Rican Obituary”. Il poema, che venne pubblicato nel 1973, parla di cinque portoricani che emigrano a New York alla ricerca di una vita migliore per poi trovare solo stenti e sofferenze.
Pietri contribuì alla fondazione del Nuyorican Poets Cafe di Manhattan insieme a Miguel Piñero e Miguel Algarín. Il Cafe è un’istituzione no profit dove si esibiscono numerosi intellettuali portoricani. Pietri scrisse lo spettacolo “El Puerto Rican Embassy”. Il tema era che qualunque isola che non fosse né una nazione indipendente né uno stato degli Stati Uniti, dovesse avere un’ambasciata. Durante l’esibizione, era solito suonare “The Spanglish National Anthem” e distribuire finti “passaporti del Porto Rico”.
Tra le altre opere di Pietri ricordiamo: “Invisible Poetry” (1979), “Traffic” (1980), “Plays” (1982), “Traffic Violations” (1983), and “The Masses are Asses” (1988). I suoi scritti sono stati pubblicati e raccolti in diverse antologie, tra cui: “Inventing a Word: An Anthology of Twentieth Century Puerto Rican Poetry (ed. Julio Marzan, 1980)”, “Illusions of a Revolving Door” (1984), “The Outlaw Bible of American Poetry (ed. Alan Kaufman, S.A. Griffin, 1999)”, “The Prentice Hall Anthology of Latino Literature (ed. Eduardo del Rio, 2002)”. In Italia, sono state pubblicate due raccolte: “‘Out of Order. Fuori servizio'” (ed. CUEC, 2001) e “‘Scarafaggi metropolitani e altre poesie Scarafaggi metropolitani e altre poesie'” (ed. Baldini Castoldi Dalai, 1993).
Pietri non si limitava a scrivere poesie ma le registrava anche. Nel 1979 esce un LP intitolato “Loose Joints”, poi seguito da “One is a Crowd”, entrambi prodotti dalla Folkway Records.
Pietri era uno spirito libero e le sue performance non erano tradizionali. In tutta la sua irriverenza verso la religione, era solito definirsi “il Reverendo Pietri, della Chiesa di Santa Maria dei Pomodori” e girare vestito di nero e con una grande croce pieghevole. In risposta al romanticismo della comunità portato avanti dai Young Lords e da altri gruppi di sinistra, scrisse “The Masses are Asses”. Egli contribuì alla prima collezione di poesie nuyoricane (Nuyorican Poetry: An Anthology of Puerto Rican Words and Feelings redatta da Miguel Algarin e Miguel Piñero nel 1975) con una poesia composta per intero da segni di punteggiatura. Pietri si esibiva spesso lanciando preservativi al pubblico durante i suoi spettacoli. Era un anticonformista e ricordava costantemente al movimento l’importanza della tolleranza, della libertà intellettuale e della conservazione della propria umanità. Era una voce unica, sia per contenuti che per stile, come confermano i tentativi falliti di lettura in pubblico del suo “Puerto Rican Obituary”.
Nel 2003 a Pietri venne diagnosticato un cancro allo stomaco. Si recò a Tijuana per sottoporsi a un trattamento olistico per un anno, ma morì il 3 marzo del 2004, mentre rientrava a New York in aereo per sottoporsi ad ulteriori cure. Aveva 59 anni. I funerali si tennero a East Harlem presso la storica First Spanish Methodist Church. Fu qui che Pedro lesse per la prima volta in pubblico “Puerto Rican Obituary”.
Gli sopravvivono la moglie Margarita Deida, la sorella Diaz, il fratello Joe e i suoi quattro figli.
“Fu a metà degli anni Settanta che si assistette alla vera fioritura della cultura portoricana a New York. Pedro Pietri, Miguel Algarìn, Sandra Maria Esteves, Victor Hernandez Cruz, […] e molti altri autori, nel Lower East Side, nel Bronx, nella East Harlem, uscirono allo scoperto, rinominandosi nuyorican. Quest’impressionante fioritura ebbe il suo luogo magico nel Nuyorican Poets’ Café (allora sulla East 6th del Lower East Side), un piccolo bar aperto da Algarín e Piñero e presto divenuto fucina multietnica e multiculturale. Fu qui, dal cuore della desolazione urbana d’un quartiere-metafora dell’America fatta di tante Americhe, che la poesia nuyorican si conquistò un posto di tutto rispetto tra le culture etniche, nell’elaborazione di una poetica nuova sia rispetto alla tradizione culturale dell’isola sia rispetto ai movimenti culturali americani – una collocazione “di frontiera”, “marginale”, e con orgoglio rivendicata come tale, in piena sintonia con quanto stava avvenendo presso altre comunità (quella messico-americana, o chicana, prima di tutte).
(dall’introduzione di Mario Maffi)
Percy Bysshe Shelley, pronuncia /ˈpɜʳsi ˈbɪʃ ˈʃɛli/ (Field Place, Sussex, 4 agosto 1792 – mare di Lerici, 8 luglio 1822), è stato un poeta e filosofo inglese, uno dei più grandi lirici romantici. È famoso per aver scritto opere da antologia quali Ozymandias, l’Ode al vento occidentale (Ode to the West Wind), A un’allodola (To a Skylark), e La maschera dell’anarchia (The Masque of Anarchy), ma quelli che vengono considerati i suoi capolavori furono i poemi narrativi visionari come il Prometeo liberato (Prometheus Unbound) e l’Adonais (Adonais). La vita anticonformista e l’idealismo assoluto di Shelley ne fecero una figura notoria e oggetto di denigrazione per tutta la sua vita. Divenne però l’idolo delle due-tre generazioni successive di poeti (inclusi i grandi vittoriani, Robert Browning, Alfred Tennyson, Dante Gabriel Rossetti, Algernon Swinburne e William Butler Yeats); Shelley fu apprezzato anche da Karl Marx. Appartenente alla seconda generazione romantica inglese, divenne inoltre famoso per la sua amicizia con i contemporanei John Keats e Lord Byron e, come loro, per la sua morte prematura, avvenuta in giovane età. Shelley infatti, dopo una vita errabonda, tragica e avventurosa, annegò nel mare di fronte a Lerici, in Italia, all’età di circa trent’anni. Il mare restituì il suo corpo sulla spiaggia di Viareggio il 18 luglio 1822, dieci giorni dopo il naufragio della sua goletta. Shelley è inoltre noto per essere stato il marito di Mary Wollstonecraft Shelley, l’autrice del romanzo Frankenstein, figlia di Mary Wollstonecraft e William Godwin, filosofo anarchico, il quale influì molto sulle idee politiche libertarie di Shelley.
Nato a Field Place, Horsham, West Sussex, Percy era un discendente di diciassettesima generazione di Richard Fitzalan, decimo Barone di Arundel e di Lancaster per tramite del figlio John Fitzalan. Era figlio di Sir Timothy Shelley (7 settembre, 1753 – 24 aprile, 1844) e della moglie Elizabeth Pilfold, frutto del loro matrimonio avvenuto nell’ottobre del 1791. Il padre era figlio ed erede di Sir Bysshe Shelley, primo Baronetto del Castello di Goring (21 giugno 1731 – 6 gennaio, 1815) che questi ereditò dalla moglie Mary Catherine Michell (morta il 7 novembre, 1760). La madre era figlia di Charles Pilfold di Effingham. Per tramite della nonna paterna Percy era il pronipote del reverendo Theobald Mitchell di Horsham, e il più grande di sei fratelli.
Essendo perciò nato in una famiglia molto influente dell’aristocrazia rurale del Sussex, Percy divenne l’erede del secondo baronetto di Castle Goring nel 1815. Ricevette la sua prima istruzione in famiglia dal reverendo Thomas Edwards di Horsham. Nel 1802 entrò nella Syon House Academy di Brentford.[4] Nel 1804, Percy fu ammesso allo Eton College, qui fu soprannominato “mad Shelley” (Shelley il folle) a causa della sua eccentricità. Il 10 aprile 1810 Percy andò all’Università di Oxford (allo University College). Nonostante si distingua per la sua notevole capacità di apprendimento, questi anni rappresentano per l’animo del giovane poeta un vero e proprio inferno: insofferente ai programmi educativi, preferisce le solitarie passeggiate in campagna e gli studi sull’elettricità, il magnetismo e la chimica.
Quattro mesi dopo la sua espulsione, il diciannovenne Shelley fuggì segretamente in Scozia con una giovane studentessa, Harriet Westbrook, figlia di John Westbrook, il proprietario di un caffè di Londra, e la sposò il 28 agosto del 1811; da lei avrà due figli. Shelley invitò il suo amico Hogg a condividere la sua casa, inclusa la moglie, come volevano i suoi ideali di amore libero, ma in seguito al rifiuto da parte di Harriet dovette abbandonare il suo progetto di matrimonio aperto. Si recò nel Lake District con l’intenzione di mettersi a scrivere, ma, distolto dagli eventi politici, si spostò poco dopo in Irlanda, interessandosi attivamente della condizione di miseria dei lavoratori dublinesi e dandosi all’attività di propagandista politico. Queste sue attività gli valsero le attenzioni ostili del governo inglese. Dal matrimonio nacque poco dopo la figlia Ianthe.
Nei due anni successivi, Shelley scrisse e pubblicò La Regina Mab: un poema filosofico (Queen Mab: A Philosophical Poem). Tale poema mostra l’influenza del filosofo inglese William Godwin, e in esso è espressa molta della filosofia radicale di quest’ultimo. Sofferente fin dal 1812 di attacchi nervosi, placati con dosi di laudano, cominciò ad attraversare fasi caratterizzate da vere e proprie allucinazioni. Intraprese in questo periodo una serie di viaggi, fra i quali è significativo quello in Irlanda; dove Shelley iniziò propaganda sia contro il dominio inglese che contro il cattolicesimo.
Mary e Percy si incontrarono segretamente alcune volte presso la tomba di Mary Wollstonecraft, nel cimitero di Saint Pancras, dove si confidarono il loro amore (Muriel Spark nella sua biografia di Mary Shelley ipotizza che fosse il 27 giugno). Con grande scoramento di Mary, Godwin disapprovò questa unione e provò a ostacolarla per salvare l'”immacolata reputazione” di sua figlia. All’incirca nello stesso momento, Godwin ebbe notizia dell’impossibilità di Shelley di saldare i prestiti che gli aveva concesso. Mary, che più tardi scrisse del suo “eccessivo e romantico attaccamento” al padre, si sentì confusa. Vedeva Percy Shelley come un’incarnazione delle idee riformistiche e liberali del 1790 dei suoi genitori, in particolare l’idea di Godwin del matrimonio come un “repressivo monopolio”, idea che aveva argomentato nella sua edizione del 1793 di Political Justice ma che avrebbe in seguito rivisto. Il 28 giugno 1814 la coppia fuggì in segreto in Francia, portando con sé la sorellastra di Mary, Claire Clairmont. Il commento di Godwin fu: “Entrambi mi hanno deluso”. I tre si imbarcarono per l’Europa attraversando la Francia per poi andare ad abitare in Svizzera. Gli Shelley avrebbero pubblicato in seguito un resoconto dell’avventura.
Dopo aver convinto Jane, nota da allora come Claire, che li aveva inseguiti fino a Calais, della loro intenzione di non ritornare a casa, il trio viaggiò verso Parigi e quindi, a dorso di mulo o di asino o su carrettini, attraversarono la Francia, recentemente dilaniata dalla guerra, fino a raggiungere la Svizzera. “Era come recitare un romanzo, divenire un romanzo vivente”, scrisse Mary ricordandosene nel 1826. Viaggiando, Mary e Percy leggevano le opere di Mary Wollstonecraft e di altri autori come l’abate Barruel, tenevano un diario comune e continuavano le proprie scritture A Lucerna a causa della penuria di denaro decisero tuttavia di tornare indietro. Costeggiarono il Reno raggiungendo via terra il porto di Maassluis (dove Mary scrisse l’abbozzo di un racconto mai terminato intitolato Hate), arrivando poi a Gravesend, nella contea inglese del Kent, il 13 settembre 1814. Tre anni più tardi, nel 1817, il diario di questo loro viaggio fu riadattato per essere pubblicato come opera narrativa dal titolo Storia di un viaggio di sei settimane (History of Six Weeks’ Tour through a Part of France, Switzerland, Germany, and Holland, with Letters Descriptive of a Sail round the Lake of Geneva, and of the Glaciers of Chamouni), a cui Percy diede uno piccolo contributo.
Dopo sei settimane, nostalgici della madre patria e senza soldi, i tre giovani tornarono in Inghilterra. Lì constatarono che Godwin, che un tempo aveva caldeggiato l’amore libero e vissuto secondo i suoi principi, si rifiutava di rivolgere la parola a Mary e a Shelley, e così fu per qualche anno. In realtà il filosofo temeva per le conseguenze sull’immagine famigliare, come dimostrerà in altre occasioni, in quanto i conservatori ne approffittavano sempre per denigrarlo, fino a portarlo sul lastrico, boicottando le sue attività letterarie ed editoriali. Nell’autunno del 1815, stabilitosi a Londra con Mary ma eludendo i creditori, Shelley produsse l’allegoria in versi intitolata Alastor, o lo spirito della solitudine (Alastor, or The Spirit of Solitude). Per quanto allora non attraesse molta attenzione, oggigiorno quest’opera è ritenuta il suo primo grande poema. La situazione in Inghilterra fu ricca di complicazioni, molte delle quali Mary non aveva previsto. Durante, o dopo, il loro viaggio, Mary era infatti rimasta incinta. Inoltre si ritrovarono di nuovo senza soldi e, con grande sorpresa da parte di Mary, suo padre si rifiutava di avere con loro il minimo contatto, sebbene poi accettasse senza troppi problemi del denaro da Percy. La coppia trovò alloggio assieme a Claire nei pressi di Somers Town e quindi a Nelson Square. Vissero questo periodo mantenendo il loro intenso programma di letture, leggendo il Caleb Williams di Godwin e di scrittura, ricevendo gli amici di Percy Shelley, come Thomas Jefferson Hogg e lo scrittore Thomas Love Peacock.[26] A volte Percy si allontanava da casa per sfuggire ai numerosi creditori, rischiando a volte di finire in prigione. Le lettere scambiate dai due amanti in questo periodo rivelano la loro pena a causa della separazione forzata.
Incinta e spesso malata, Mary Godwin si trovò a far fronte alla gioia di Shelley per la nascita di Charles, figlio del poeta e di Harriet, e al rapporto sempre più difficile con Claire, la quale cominciò ad attirare l’attenzione della coppia perché si sentiva trascurata. Mary trovò parziale conforto in Hogg, che all’inizio non trovava molto simpatico ma che col tempo cominciò a considerare un amico. Percy spinse i due a diventare amanti in nome dell’ideale dell’amore libero; si suppone che Mary non abbia disprezzato l’idea, condividendo anche lei gli stessi ideali, ma non si hanno prove certe dell’attuazione di tale relazione. Uniche testimonianze sono gli affettuosi scambi epistolari fra Mary ed Hogg, che comunque non chiariscono con esattezza la situazione. In pratica però Mary continuò ad amare Percy e non mise mai in dubbio il suo amore per lui, come del resto afferma chiaramente in una lettera diretta ad Hogg: “So quanto mi ami e con quale tenerezza, e mi piace pensare che posso costituire la tua felicità. (…) ma la nostra ancora più grande felicità sarà in Shelley – che io amo così teneramente e interamente, la mia vita è nella luce dei suoi occhi e la mia intera anima è completamente assorbita da lui”.[32] Il 22 febbraio 1815 Mary diede alla luce una bimba prematura di due mesi, Clara, che morì circa due settimane dopo. A seguito della morte della piccola, Mary contattò Hogg mediante una lettera, che in quel frangente si rivelò un buon amico.
La perdita della figlia precipitò Mary in una profonda depressione, spesso ossessionata proprio dalla visione della bimba; presto tuttavia si riprese ed entro l’estate si ristabilì. A seguito del risanamento delle finanze di Percy – seguito alla morte di suo nonno, sir Bysshe Shelley – la coppia trascorse un periodo di vacanza a Torquay e in seguito affittò una casa a due piani a Bishopsgate, vicino al parco di Windsor. Poco si sa di questo periodo, dato che il diario di Mary che va dal maggio 1815 al luglio 1816 è andato perduto; Percy scrisse il suo poema Alastor e il 24 gennaio 1816 nacque il secondo figlio di Mary e Percy, che fu chiamato William in onore di Godwin e soprannominato dalla coppia “Willmouse”.
Nell’estate del 1816 gli Shelley fecero un secondo viaggio in Svizzera. L’occasione venne dalla sorellastra di Mary Shelley, Claire Clairmont, che si era legata a Lord Byron l’aprile precedente, poco prima che questi si esiliasse nel continente. Byron aveva perso l’interesse verso Claire, ma lei utilizzò l’opportunità di incontrare gli Shelley come esca per farlo venire a Ginevra. Byron e gli Shelley affittarono delle case adiacenti tra loro sulle rive del Lago di Ginevra, e le frequenti conversazioni con Byron ebbero un effetto molto stimolante sulla poesia di Shelley. Un giro in barca intrapreso dai due spinse Shelley a scrivere l’Inno alla bellezza dell’intelletto (Hymn to Intellectual Beauty), la sua prima opera di un certo rilievo dopo l’Alastor. Un giro di Chamonix sulle Alpi francesi ispirò Monte Bianco (Mont Blanc), una poesia complessa in cui Shelley riflette sull’inevitabilità degli eventi della storia e sulla relazione tra la mente umana e la natura che ci circonda. A sua volta, Shelley influenzò la poesia di Byron. Tale influenza è visibile nella terza parte del Childe Harold’s Pilgrimage, a cui Byron stava lavorando, e in Manfredi (Manfred), da lui scritto nell’autunno di quell’anno. In quello stesso tempo Mary trovò l’ispirazione per iniziare a scrivere Frankenstein. Nella tarda estate di quell’anno, Claire e gli Shelley fecero ritorno in Inghilterra. Claire era incinta della figlia di Byron, fatto, questo destinato ad avere conseguenze non trascurabili sul futuro di Shelley.
Nel maggio 1816 Mary e Percy si diressero assieme al figlio verso Ginevra, accompagnati da Claire Clairmont. Avevano pianificato di trascorrere l’estate con il poeta Lord Byron, che di recente aveva cominciato una relazione con Claire, la quale era rimasta incinta. Lo scopo di tale incontro era infatti quello di prendere decisioni sul da farsi nei confronti della creatura che stava venendo al mondo. Il gruppo raggiunse Ginevra il 14 maggio 1816, prendendo in affitto una casa chiamata Maison Chapuis nei pressi della villa in cui Byron risiedeva, Villa Diodati, vicino al villaggio di Cologny; Mary in quel periodo cominciò a definirsi “Signora Shelley”. Byron, accompagnato dal medico John William Polidori, incontrò il gruppo il 25 maggio; trascorrevano le giornate scrivendo, andando in barca e parlando fino a notte fonda.
“Ma fu un’estate piovosa e poco clemente”, ricorda Mary nel 1831. “la pioggia incessante ci costrinse spesso in casa per giornate intere.”In queste giornate vari furono gli argomenti affrontati dalla compagnia: gli esperimenti condotti nel XVIII secolo da Erasmus Darwin (nonno di Charles), il quale affermò di esser riuscito a rianimare la materia morta, il galvanismo e la possibilità di ricomporre e ridare vita alle parti di un essere vivente, conoscenze che Shelley e Mary avevano approfondito discutendo con un loro amico, il medico italiano Andrea Vaccà Berlinghieri, che studiava i cadaveri e l’elettricità, e forse anche assistendo ad alcuni dei suoi esperimenti. Sedendosi davanti al fuoco alla villa di Byron, la compagnia si divertiva leggendo storie tedesche di fantasmi (come le Fantasmagoriana). Byron propose poi un gioco: ognuno avrebbe dovuto scrivere una storia di fantasmi e di paura; poco tempo dopo Mary nel dormiveglia ebbe l’idea, che divenne il romanzo Frankenstein.
Mary cominciò a scrivere la storia dandole l’impostazione di un racconto breve. Percy, dopo aver visto la prima bozza, la incoraggiò tuttavia a proseguire ed espandere il racconto in ciò che sarebbe divenuto il romanzo d’esordio di Mary: Frankenstein; ovvero il moderno Prometeo. In seguito Mary definì il periodo svizzero come “il momento in cui passai dall’adolescenza all’età adulta.”
Dopo il loro rientro a Londra a settembre Mary e Percy presero casa a Bath, sempre accompagnati da Claire, la quale prese dimora vicino a loro. Motivo principale di questo loro spostamento a Bath fu la speranza di riuscire a tenere nascosta la gravidanza, oramai evidente, di Claire. Quando erano ancora a Cologny, Mary aveva ricevuto lettere dalla sorella Fanny Imlay la quale si lamentava della propria “infelice vita”; il 9 ottobre Fanny scrisse poco dopo una “lettera allarmante”, che spinse Percy a correre da lei, ma oramai era troppo tardi. Il 10 ottobre Fanny fu trovata morta in una camera a Swansea con una bottiglietta di laudano e una lettera di suicidio:
« Da tempo ho deciso che la cosa migliore che io potessi fare era di porre fine all’esistenza di una creatura sfortunata dalla nascita, la cui vita è stata soltanto una serie di dispiaceri per coloro che si sono rovinati la salute per procurarle benessere. Forse la mia morte vi addolorerà, ma avrete presto la fortuna di dimenticare che una creatura simile è esistita come … »
Vi aveva rimosso la firma, probabilmente per rispetto al nome Godwin. Il suicidio fu tenuto segreto; Godwin sparse la voce che Fanny era morta di malattia in Irlanda e impedì a Mary di andare a farle visita. La reputazione di Fanny era così salva. Shelley scrisse in sua memoria la poesia To Fanny Godwin. Poco tempo dopo a questa si aggiunse un’altra disgrazia: il 10 dicembre, infatti, Harriet, moglie di Percy, fu trovata affogata nel Serpentine, un laghetto di Hyde Park a Londra, secondo alcuni incinta.
Come accadde per quello di Fanny, anche questo suicidio fu tenuto nascosto, per evitare problemi legali alla famiglia e a Shelley. I familiari di Harriet contrastarono però il tentativo di Percy (appoggiato anche da Mary) di ottenere l’affidamento dei due bambini avuti da lei. Gli avvocati di Percy, per favorire l’affidamento, gli consigliarono di sposarsi; così lui e Mary, di nuovo incinta, si sposarono il 30 dicembre 1816 nella chiesa di San Mildred, a Bread Street (Londra), alla presenza dei coniugi Godwin, William e la seconda moglie Mary Jane Clairmont, la madre di Claire, Charles e William jr.
l 13 gennaio del 1817 nacque la figlia di Claire, Alba, ribattezzata poi da Byron Allegra nel 1818.[56] Nel marzo dello stesso anno Percy fu dichiarato moralmente inadatto a ottenere la tutela dei figli, che furono così affidati alla famiglia di un ecclesiastico del Kent. Nello stesso periodo gli Shelley, con Claire e Alba, traslocarono in una casa ad Albion, presso Marlow, nel Buckinghamshire, sulle rive del Tamigi. Qui il 2 settembre nacque la terza figlia di Mary, Clara Everina. A Marlow incontrarono Marianne e Leigh Hunt, lavorarono alle loro opere e discussero spesso di politica. Nel maggio del 1817 Mary terminò di scrivere Frankenstein, che fu pubblicato anonimo nel 1818 con una prefazione scritta da Percy. Critici e lettori affermarono che Percy Shelley fosse il vero autore, probabilmente anche perché l’opera era dedicata a William Godwin.
Dopo una serie di alti e bassi letterari e personali, nel 1818, rotti tutti i rapporti con la famiglia e in uno stato di salute pessimo, il poeta, con il suo seguito (la moglie, i due figli, la cognata Jane e sua figlia Allegra) si spostò in Italia, dove, nel giro di quattro anni, soggiornò a Venezia, Livorno, Lucca, Este, Roma, Napoli, Firenze e Pisa. La sua ultima residenza fu a Villa Magni a San Terenzo, paese marinaro nel Comune di Lerici (La Spezia). Shelley e Mary perderanno due dei tre figli in Italia: prima Clara (Claire) Everina e poi William; sopravvisse solo il figlio nato a Firenze, Percy Florence.
Uno dei primi impegni che ebbe il gruppo una volta raggiunta l’Italia fu di portare Alba da suo padre Byron, che viveva a Venezia. Byron accettò di crescere ed educare la figlia, a patto che però Claire ne stesse alla larga; non voleva avere più niente a che fare con lei. Cominciarono così il loro viaggio in Italia, visitando molte città senza mai fermarsi troppo a lungo in un posto. Lungo la via fecero nuove amicizie e conoscenze, spesso viaggiando insieme al nuovo gruppo di amici. La coppia dedicava il proprio tempo alla scrittura, alla lettura, visitando le città, imparando la lingua e socializzando. L’avventura italiana fu comunque rovinata dalla morte di entrambi i figli di Mary: Clara morì per dissenteria a Venezia nel febbraio 1818, William morì invece di malaria a Roma nel giugno del 1819. Queste perdite gettarono Mary in una profonda depressione che la allontanò da Percy, il quale scrisse:
« Mia carissima Mary, per quale ragione te ne sei andata,
E mi hai lasciato solo in questo mondo desolato?
Il tuo corpo è qui in verità -un corpo piacevole-
Ma tu sei fuggita, ti sei inoltrata per una strada desolata
Che porta alla più tetra dimora del Dolore
Dove anche per amor tuo io non posso seguirti
Ritornerai per me? »
Per un po’ di tempo Mary trovò come unico conforto la scrittura. La nascita a Firenze di un altro figlio, Percy Florence, il 12 novembre 1819, la aiutò a riprendersi, sebbene Mary serbasse il ricordo dei propri figli sino alla fine della propria vita.
L’Italia consentiva agli Shelley, a Byron e agli altri esuli una libertà politica irrealizzabile in patria. Malgrado le perdite personali, diventò per Mary “un paese nel quale la memoria viene dipinta come il paradiso” Gli anni italiani furono intensi sia dal punto di vista intellettuale che creativo per entrambi i coniugi Shelley. Mentre Percy compose la maggior parte dei suoi poemi, Mary scrisse la novella semi autobiografica Matilda, il romanzo storico Valperga e le opere teatrali Proserpina e Mida.
Mary scrisse Valperga per aiutare la situazione finanziaria del padre, dato che Percy si rifiutò di assisterlo ulteriormente. In questo periodo era spesso malata e facilmente cadeva in depressione; inoltre fu costretta ad affrontare l’interesse di Percy verso altre donne come Sophia Stacey, Emilia Viviani e Jane Williams. Dato che Mary condivideva l’idea di Percy della non esclusività del matrimonio, decise di riorientare le proprie emozioni, rafforzando i legami fra gli uomini e le donne all’interno del loro circolo; in particolare si affezionò al principe Alessandro Mavrocordato, rivoluzionario greco, e a Jane ed Edward Williams.
Nel dicembre 1818 gli Shelley si diressero verso Napoli, dove rimasero tre mesi, ricevendo come ospite soltanto un visitatore, un medico. Proprio a Napoli Mary trasse ispirazione per la realizzazione del romanzo apocalittico L’ultimo uomo. Nel 1820 si trovarono a dover affrontare le accuse e le minacce di Paolo e Elise Foggi, ex domestici che Percy aveva licenziato a Napoli dopo che la coppia Foggi si era sposata. I due avevano scoperto che il 27 febbraio 1819, a Napoli, Percy aveva registrato come figlio suo e di Mary una bambina di due mesi chiamata Elena Adelaide Shelley, affermando inoltre che la vera madre non fosse Mary, ma Claire. I biografi hanno offerto varie interpretazioni di questa vicenda: che Shelley avesse deciso di adottare una bambina del luogo per lenire il dolore di Mary dopo la perdita della figlia; che la figlia fosse sua e di Elise, oppure di Claire o di un’altra donna; o anche che la bambina fosse nata da una relazione di Elise con Byron. Mary Shelley affermò più volte che se Claire fosse stata incinta lei lo avrebbe certamente saputo, ma in realtà non è molto chiaro ciò che effettivamente Mary sapeva della situazione.
Gli eventi di Napoli, città che Mary più tardi definì come un “paradiso abitato da demoni” (ma a cui Shelley dedicò alcune liriche), rimangono avvolti dal mistero. L’unica cosa certa era che Mary non era la madre della bambina. Elena Adelaide Shelley morì a Napoli il 9 giugno 1820. Non è tuttora chiara la vicenda della bambina, nata e morta molta piccola, registrata come figlia naturale di Shelley e della presunta madre biologica, ma che in realtà pare che non avesse rapporti di parentela né con Mary né con Percy (si disse anche che era figlia dei domestici di Shelley). Nell’estate del 1822 Percy e Mary (nuovamente incinta) si diressero, assieme a Claire e Williams, a Villa Magni, a San Terenzo, nella baia di Lerici, quello che sarà chiamato il “golfo dei poeti”. Una volta sistematisi nella nuova dimora, il clima di tranquillità fu spezzato dall’annuncio della morte di Allegra, figlia di Claire, deceduta di tifo nel convento a Bagnacavallo in cui Byron aveva voluto educarla. Questo evento gettò sia Claire che Mary in una profonda depressione. Mary Shelley era distratta e infelice nella ristretta e remota Villa Magni, nella quale si sentiva come in prigione. Il 16 giugno ebbe un aborto spontaneo e rischiò di morire. Percy intervenne prontamente, immergendo Mary in una vasca con ghiaccio per rallentare l’emorragia prima dell’arrivo del medico, salvandole così la vita. I rapporti fra Mary e Percy comunque non migliorarono durante l’estate e Percy trascorse molto più tempo con Jane Williams che non con la moglie debilitata.La maggior parte delle poesie che Percy scrisse erano rivolte a Jane e non a Mary.
La vicinanza col mare permise a Shelley e a Edward Williams l’occasione di divertirsi navigando con la loro nuova barca, la goletta “Ariel” (chiamata anche “Don Juan”, in omaggio ad un’opera di Byron). La barca era stata progettata da Daniel Roberts e da Edward Trelawny, un ammiratore di Byron che aveva raggiunto il gruppo nel gennaio del 1822. Il 1º giugno 1822 Percy, Edward Williams e il capitano Daniel Roberts salparono diretti verso la costa di Livorno. Là Percy doveva discutere con Byron e Leigh Hunt sulla possibilità di avviare una rivista radicale chiamata The Liberal.
L’8 luglio 1822, a poco meno di un mese dal suo trentesimo compleanno, Percy e Edward salparono di nuovo, accompagnati dal marinaio Charles Vivian, per fare ritorno a Villa Magni. Non arrivarono mai a destinazione. Giunse a Villa Magni una lettera di Hunt per Percy datata all’8 luglio, in cui Hunt chiedeva come fossero riusciti a tornare a casa dato il brutto tempo il giorno della loro partenza. Mary e Jane Williams partirono subito verso Livorno e quindi alla volta di Pisa, con la speranza di trovare i mariti salvi. Dalla ricostruzione dei fatti si evinse che subito dopo la partenza, Shelley era stato sorpreso da una tempesta improvvisa mentre era a bordo della sua nuova navigando con gli amici verso San Terenzo, di ritorno da Pisa e Livorno.
Dopo una sepoltura provvisoria nella sabbia, sempre sulla stessa spiaggia, la cerimonia di cremazione avvenne quindi nello stesso luogo, qualche settimana dopo. Per volontà di Mary, durante il rogo furono versati sul corpo di Percy profumi, incensi e oli aromatici procurati da Byron stesso, come avvenne durante il funerale di Miseno descritto nel sesto libro dell’Eneide. Un annedoto narra che Trelawny riuscì a sottrarre dalle fiamme il cuore di Percy che non bruciava e lo consegnò a Mary in una scatola di legno. Il cuore venne realmente estratto quasi intatto dalla pira, come si vedrà poi, e custodito da Mary Shelley fino al giorno della morte di lei, quando venne sepolto nello stesso luogo (il cimitero di Bornemouth, dove erano stati traslati anche i corpi di Mary Wollstonecraft e William Godwin, per disposizione di Percy Florence); le ceneri vennero sepolte nel Cimitero acattolico (o Cimitero degli Inglesi) di Roma, insieme al figlio William, dove tuttora è visibile la tomba, nei pressi di quella di John Keats. L’epigrafe, in riferimento alla sua morte in mare, riprende tre versi del canto di Ariel (in ricordo della goletta) dalla Tempesta di Shakespeare: Nothing of him that doth fade / but doth suffer a sea change / into something rich and strange («Niente di lui si dissolve / ma subisce una metamorfosi marina / per divenire qualcosa di ricco e strano»). I viareggini del popolo, a quel tempo superstiziosi e molto cattolici, non gradirono quello che ai loro occhi era un “rito pagano” (allora la Chiesa proibiva la cremazione), perdipiù per una persona straniera e non credente.
Nel 1892, per i 70 anni dalla nascita, un comitato nato nel 1890 (già costituito una prima volta nel 1874), a cui avevano aderito Algernon Swinburne, Domenico Menotti Garibaldi, Felice Cavallotti, Edmondo de Amicis, Mario Rapisardi e William Ewart Gladstone, ottenne di innalzare a Shelley un busto, nei pressi del luogo dove il corpo venne cremato; il monumento venne inaugurato, dopo diverse vicissitudini, nel 1894, in piazza Paolina. Nel 1922, per celebrare il centenario della morte del poeta inglese e il suo legame con l’Italia, Lorenzo Viani fu incaricato dal Comitato per le Onoranze di commemorare la ricorrenza a Viareggio. Viani, per l’occasione, curò la pubblicazione del numero unico “P.B. Shelley”, al quale collaborarono Alceste De Ambris e Gabriele D’Annunzio. Da allora sono state organizzate diverse intitolazioni e commemorazioni sia in Inghilterra che in Italia, soprattutto a Lerici e Viareggio.
Nonostante dichiari il suo aperto ateismo e il suo materialismo, Shelley è in realtà un panteista e un epicureo che sogna un Eden pagano dove non esiste il peccato ma solo gioia e piacere (amori impetuosi, passioni brevi ma travolgenti segnarono il suo percorso di “genio nordico dal cuore latino”); secondo il suo pensiero Dio è tutta la natura e il mondo stesso, l’uno e il tutto riuniti nella memoria della specie, un Dio in marcia con l’umanità: sta ai poeti riprendere là dove altri hanno finito nella stesura di quel poema universale che è la ricerca dell’invisibile attraverso il bello, l’intuizione e l’ispirazione.
Dalla sua formazione classica, dallo studio del greco e del latino, deriva una passione per i miti, che nella sua poesia sono spesso ripresi ed ampliati.
Nel Prometeo liberato e nel saggio In difesa della poesia Shelley esorta i poeti a ricercare la parola trasfigurante che può indovinare l’invisibile e ad entrare nel mondo del mistero che può essere rivelato da una parola mai parlata: non è quindi un illuminista come il suo ispiratore Godwin, non è uno scienziato che sperimenta, ma un medium che col linguaggio scopre la verità più recondita.
Shelley è un poeta contraddittorio: nelle sue opere bisogna distinguere la poesia frutto di commozione eloquente da quella composta di versi ideologici e talvolta retorici, a partire da quelli condizionati dalle sue posizioni a favore dell’amore libero e di ogni trasgressione dei principi correnti, contro il lavoro organizzato in fabbrica, contro l’istituzione di una società mercantile e colonialista.
Shelley non è impegnato a costruirsi un’immortalità postuma con la scrittura o le gesta (come accadde per Byron o D’Annunzio), ma è afflitto dalla mortalità dell’uomo, temperata talvolta solo dall’idea secondo la quale ci si può ricongiungere all’Assoluto attraverso la contemplazione e con l’aiuto della filosofia si può tendere all’Uno.
Sia Percy Bysshe Shelley sia Mary Shelley furono strenui difensori del vegetarianismo. Shelley scrisse diversi saggi in cui difendeva la dieta vegetariana, tra i quali la Rivendicazione della dieta naturale e Sul sistema della dieta vegetariana. Shelley scrisse, riprendendo il sensismo e il pre-animalismo di illuministi come Voltaire e Diderot, nella seconda di queste due opere: «Il macello d’innocui animali non può mancare di produrre molto di quello spirito d’insana e spaventevole esultanza per la vittoria acquistata a prezzo del massacro di centomila uomini. Se l’uso del cibo animale sovverte la quiete del consorzio umano, quanto è indesiderabile l’ingiustizia e la barbarie esercitata verso queste povere vittime! Esse sono chiamate a vivere dall’artificio umano solo allo scopo di vivere una breve e infelice esistenza di malattia e schiavitù, perché il loro corpo sia mutilato e violati i loro affetti. Molto meglio che un essere capace di sentimenti non sia mai esistito, piuttosto che sia vissuto soltanto per sopportare una dolorosa esistenza senza sollievo alcuno.»
« Allora è provare spirito di vendetta / ferocemente desiderando scambiare
sangue con sangue e torto con torto: / non fate questo se siete forti. »
(P.B. Shelley, La maschera dell’anarchia)
La disobbedienza civile di Henry David Thoreau e la resistenza nonviolenta del Mahatma Gandhi furono influenzate ed ispirate anche dall’attitudine nonviolenta di Shelley nelle proteste e nelle azioni politiche. Gandhi citò spesso brani de La maschera dell’anarchia (nel quale l’anarchia è intesa nel tradizionale significato di caos, e non come libertà dai tiranni) di Shelley,, opera che venne definita “forse la prima formulazione moderna del principio di resistenza non violenta”. L’ispirazione pacifista, evidente anche in altre opere come La rivolta dell’Islam, è considerata evidente, e porta Shelley a teorizzare una rivolta senza violenza alcuna.
« Ah, ma non ivi alcuno de’ novi poeti mai surse,
se non tu forse, Shelley, spirito di titano,
entro virginee forme »
(Giosuè Carducci, Presso l’urna di P. B. Shelley, Odi barbare)
Shelley non riscosse popolarità nella generazione che seguì immediatamente la sua morte, al contrario di Lord Byron, famoso tra le classi più alte durante la sua esistenza nonostante il suo pensiero radicale. Per decenni dopo la morte, Shelley fu solo apprezzato dai grandi poeti vittoriani come Alfred Tennyson, Robert Browning, Algernon Swinburne o William Butler Yeats o letto solo da personalità di cultura come Giacomo Leopardi (Giacomo Zanella, traduttore e letterato, notò questo influsso, seppur minoritario rispetto a quello di Byron, sul poeta di Recanati) e Giuseppe Mazzini (conoscente di Mary Shelley durante il suo esilio a Londra); ma espressero interesse anche i preraffaelliti, i socialisti e il movimento laburista – egli contava Karl Marx tra i suoi ammiratori – e ovviamente gli anarchici, che lo consideravano il primo vero artista anarchico della storia. Solo nella seconda parte del XIX secolo l’opera di Shelley, o piuttosto la parte per così dire più “innocente” e meno rivoluzionaria di essa, divenne celebre – grazie all’opera divulgativa di studiosi come Henry Salt, la cui tanto acclamata biografia, Percy Bysshe Shelley: il poeta e il pioniere (Percy Bysshe Shelley: Poet and Pioneer) fu pubblicata per la prima volta nel 1896. Nello stesso periodo curarono opere su Shelley i poeti italiani Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio. La morte di Shelley è ricordata da Virginia Woolf nel suo diario, in data 12 maggio 1933. La scrittrice si trovava a Pisa all’albergo Nettuno e scrive “La casa di Shelley che aspetta vicino al mare, e Shelley che non arriva, e Mary e la signora Williams che guardano dal terrazzo, e poi Trelawney che arriva da Pisa e il cadavere bruciato sulla spiaggia: a questo penso”. Ammirazione per Shelley fu espressa anche da Bertrand Russell, Rabindranath Tagore, C.S. Lewis. Nel periodo tra la prima guerra mondiale e la metà del XX secolo, età dominata dalla critica di T. S. Eliot, la poesia di Shelley fu trattata con sussiego dall’establishment dei critici – anche a causa della reazione di Eliot (che pure ne apprezzava la tecnica compositiva) all’ateismo militante del poeta. Alla fine degli anni cinquanta, grazie alla spinta di Harold Bloom, Shelley cominciò a riacquistare una reputazione. Dopo i vittoriani, trassero ispirazione da Shelley (come accaduto già con Coleridge e Blake), i poeti ribelli delle generazioni successive, dai decadenti agli intellettuali degli anni sessanta: Shelley fu un esempio per il movimento vegetariano, i libertari, la psichedelia e la beat generation; l’ammirazione per Shelley (spesso estesa anche a Mary, Keats e Byron), la sua poesia e la vita fuori dagli schemi, a volte rappresentata più eccessiva di quanto fu, lo fecero divenire uno dei simboli stessi del periodo romantico.
Robert Traill Spence IV Lowell (Boston, 1º marzo 1917 – New York, 12 settembre 1977) è stato un poeta statunitense, considerato il fondatore della Poesia Confessionale e designato come il sesto poeta laureato in poesia dalla Biblioteca del Congresso nel 1946; è stato due volte vincitore del Premio Pulitzer per la poesia.
Biografia
Nasce a Boston, Massachusetts, in una famiglia di “Bramini di Boston” che ha dato i natali anche ai poeti Amy Lowell e James Russell Lowell. La madre, Charlotte Winslow, è una discendente di William Samuel Johnson, uno dei firmatari della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Frequenta la St. Mark’s School, una scuola prestigiosa a Southborough, sempre in Massachusetts, poi Harvard per due anni e successivamente si trasferisce al Kenyon College di Gambier, Ohio, per studiare con John Crowe Ransom. Si converte dall’Episcopalismo al Cattolicesimo e ciò influisce sui suoi primi due libri: “Land of Unlikeness” (1944) e “Lord Weary’s Castle” (1946). Alla fine degli anni quaranta lascia la Chiesa cattolica. Nel 1950 viene incluso nell’antologia “Mid-Century American Poets” (letteralmente: Poeti Americani di metà secolo) come uno dei personaggi letterari chiave della sua generazione. Oltre a Lowell appaiono nel libro suoi contemporanei come Muriel Rukeyser, Karl Shapiro, Elizabeth Bishop, Theodore Roethke, Randall Jarrell e John Ciardi, tutti poeti divenuti importanti negli anni ’40. Nello stesso anno insegna nell’Iowa Writers’ Workshop presso l’Università dell’Iowa. Lowell è un obiettore di coscienza durante la seconda guerra mondiale e sconta anche diversi mesi nella prigione federale di Danbury, Connecticut. Scrive di questa sua esperienza nella sua poesia “Memories of West Street and Lepke” dal suo libro “Life Studies”. Nel 1949 è coinvolto nella diffusione della Paura rossa portata avanti dalla Yaddo e cerca di prendere il posto della direttrice della stessa, Elizabeth Ames, quando viene interrogata insieme alla scrittrice Agnes Smedley per presunti spionaggi per l’Unione Sovietica. Durante gli anni sessanta è attivo per i diritti civili e si oppone al coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam. La sua partecipazione ad una marcia pacifica nell’ottobre 1967 a Washington ed il suo conseguente arresto vengono descritti nella prima sezione di “The Armies of the Night” di Norman Mailer. Il poeta soffre di alcolismo e di psicosi maniaco-depressiva e viene ricoverato spesso per questi motivi. Dal 1940 al 1948 è sposato con la romanziera Jean Stafford. Nel 1949 sposa la scrittrice Elizabeth Hardwick, dalla quale si separa nel 1970, per stare con l’autrice inglese Lady Caroline Blackwood e trascorre buona parte dei suoi ultimi anni in Inghilterra. Muore nel 1977 a causa di un infarto su di un taxi a New York, mentre sta andando a trovare la sua ex moglie Elizabeth. Viene tumulato presso il cimitero di Stark, vicino al comune di Dunbarton, nel New Hampshire.
Attività letteraria
Nel 1946 raggiunge un ampio successo con il suo libro “Lord Weary’s Castle”, che include dieci poesie leggermente riviste rispetto al suo precedente “Land of Unlikeness”, e trenta nuove composizioni. Tra i volumi più conosciuti ci sono “Mr Edwards and the Spider” e “The Quaker Graveyard in Nantucket”. I primi scritti di Lowell sono formali, elaborati e trattano di argomenti quali violenza e teologia; un tipico esempio è la conclusione di “The Quaker Graveyard in Nantucket”:
(EN)
« You could cut the brackish winds with a knife / Here in Nantucket and cast up the time / When the Lord God formed man from the sea’s slime / And breathed into his face the breath of life, / And the blue-lung’d combers lumbered to the kill. / The Lord survives the rainbow of His will. »
(IT)
« Tu puoi tagliare con un coltello il vento salmastro
Qui in Nantucket gettare il tempo
Quando Dio creò l’uomo dalla fanghiglia del mare
e gli diede il respiro vitale,
e le pettinatrici blu portate all’omicidio
sopravvive l’arcobaleno del volere del Signore. »
“The Mills of the Kavanaughs”, scritto nel 1951 ed incentrato sul suo titolo epico, non riceve lo stesso consenso, ma l’autore è in grado di ravvivare la sua reputazione con “Life Studies” nel 1959. Le poesie contenute in questo libro sono scritte con un mix di versi liberi e metrici, con un linguaggio più informale rispetto ai suoi due libri precedenti. Questo dà una svolta decisiva sia alla sua carriera che alla poesia americana in generale. Siccome molti componimenti includevano dettagli della vita familiare dei Lowell e problemi personali, un critico, M.L. Rosenthal, etichetta il libro come “confessionale”. Nel bene e nel male, questa etichetta lo blocca. Il suo editore ed amico, Frank Bidart scrive nella sua postfazione alla “Collezione di Poesie” del poeta “Lowell è ampiamente, forse indelebilmente associato al termine “confessionale”. A “Life Studies” segue “Imitations”, un volume di libere traduzioni di poeti europei sia classici che moderni, quali Rilke, Montale, Baudelaire, Pasternak e Rimbaud, per le quali riceve nel 1962 il premio “Bollingen Poetry Translation”. Anche il successivo libro, “For the Union Dead” del 1964, è ampiamente apprezzato, in modo particolare per il suo titolo, che invoca “Ode to the Confederate Dead.” di Allen Tate. Due anni dopo scrive “Near the Ocean”, in cui ritorna ad una forma strofica e la seconda metà del libro segna il ritorno di Lowell alla traduzione libera, includendo approssimazioni di versi di Dante, Giovenale e Orazio.
La poesia più conosciuta in questo volume è “Waking Early Sunday Morning”, che è composta in strofe di otto linee, “prese in prestito” da Andrew Marvell dalla sua “Upon Appleton House”, e mostra gli inizi politici del lavoro del poeta. Tra il 1967 ed il 1968 sperimenta il verso giornaliero, pubblicato col titolo di “Notebook”. Queste poesie di quattordici linee, basate sulla forma del sonetto, furono rielaborate in tre volumi. L’argomento è la storia pubblica dall’antichità alla metà del XX secolo, nonostante il libro non segua sempre un percorso lineare o logico e contenga poesie su amici, suoi pari e familiari. “For Lizzie and Harriet” descrive la fine del suo secondo matrimonio e contiene poesie che dovrebbero “dare voce” a sua figlia Harriet ed alla sua seconda moglie Elizabeth. L’ultimo lavoro di Lowell in una sequenza di sonetti,”The Dolphin” (in Italia pubblicato con il titolo di “Il delfino e altre poesie'”), include composizioni su sua figlia, la sua ex moglie e la sua attuale sposa, Caroline Blackwood, che lui soprannomina affettuosamente delfino. Scoppia una piccola controversia, quando l’autore ammette di aver utilizzato ed alterato delle lettere private della sua ex moglie, Elizabeth Hardwick, nelle poesie di “The Dolphin”. Per questo è fortemente criticato dai suoi amici e dai suoi colleghi poeti, tra cui Adrienne Rich e Elizabeth Bishop. Pubblica il suo ultimo volume di poesie “Day by Day”, in Italia pubblicato con il titolo di “Giorno per giorno”, nel 1977, anno della sua morte. Questo è l’unico scritto di Lowell contenente versi liberi ed è “dedicato” ai suoi fan, i quali erano rimasti insoddisfatti dai sonetti piuttosto irregolari che l’autore ha riscritto e riassemblato in un volume dal 1967, “Day by Day” segnò un ritorno alla forma. Il poeta fu anche Consultant in Poetry presso la Biblioteca del Congresso dal 1947 al 1948. Le collezioni di poesie di Lowell vengono edite da Frank Bidart insieme a David Gewanter e pubblicate nel 2003. Le lettere del poeta, edite da Saskia Hamilton, vengono stampate nel 2005. Queste pubblicazioni contribuiscono a rinnovare l’interesse verso l’autore.
Opere
Land of Unlikeness (1944)
Lord Weary’s Castle (1946)
The Mills of The Kavanaughs (1951)
Life Studies (1959)
Phaedra (1961)
Imitations (1961)
For the Union Dead (1964)
The Old Glory (1965)
Near the Ocean (1967)
The Voyage & other versions of poems of Baudelaire (1969)
Prometheus Bound (1969)
Notebook (1969) (un’edizione revisionata ed ampliata è uscita nel 1970)
For Lizzie and Harriet (1973)
History (1973)
The Dolphin (1973)
Selected Poems (1976) (un’edizione revisionata è uscita nel 1977)
Day by Day (1977)
The Oresteia of Aeschylus (1978)
Collected Poems (2003)
Selected Poems (2006) (edizione ampliata)
Words in Air: The Complete Correspondence Between Elizabeth Bishop and Robert Lowell, edito da Thomas Travisano, scritto con la collaborazione di Saskia Hamilton (Farrar, Strauss & Giroux, 2008)
Opere pubblicate in Italia
Prometeo incatenato, titolo originale Prometheus Bound , Einaudi – 1997
Il delfino e altre poesie, titolo originale The Dolphin, Arnoldo Mondadori Editore – 2000
Giorno per giorno, titolo originale Day by Day, Mondadori – 2001
Poesie 1940-1970, con testo originale a fronte Guanda – 2001
Poesie 1940-1970, Guanda – 2003
Premi
Nel 1947 il poeta riceve il Premio Pulitzer per la poesia per Lord Weary’s Castle.
Nel 1974 vince nuovamente il Premio Pulitzer per la poesia per Il delfino e altre poesie.
Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968) è stato un poeta italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo, ha contribuito alla traduzione di testi classici e soprattutto dei lirici greci ma anche di opere teatrali di William Shakespeare e Molière, è stato vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959.
Salvatore Quasimodo nacque il 20 agosto 1901 da Gaetano e Clotilde Ragusa a Modica, dove il padre, capostazione, era stato assegnato nella locale stazione. In seguito all’alluvione di Modica, il 26 settembre 1902, qualche giorno dopo il suo primo compleanno, la madre Clotilde con i piccoli Salvatore ed il fratello Enzo poco più grande nato nel 1899, si trasferì nella più sicura casa di Roccalumera, dal nonno paterno Vincenzo che era partito con mezzi di fortuna per recuperarli per l’impossibilità del padre Gaetano a lasciare il servizio.
Dopo circa due mesi dalla nascita di Salvatore, il padre Gaetano fu trasferito. La famiglia del piccolo Salvatore fu costretta a spostarsi frequentemente, al seguito del padre, nelle varie stazioni ferroviarie siciliane: Aragona Caldare, Sferro, Comitini, Roccalumera, Valsavoja). Nel 1908 a Gela iniziò a frequentare le scuole elementari.
Nel febbraio del 1909 il padre venne incaricato della riorganizzazione del traffico ferroviario nella stazione di Messina colpita da un disastroso terremoto e successivo maremoto il 28 dicembre 1908. In quel periodo vissero in un carro merci parcheggiato su un binario morto della stazione. Quegli anni resteranno impressi nella memoria del poeta che li evocherà nella poesia Al Padre scritta in occasione dei 90 anni del padre e dei 50 anni dal disastroso terremoto di Messina inserita nella raccolta La terra impareggiabile
Nel 1916 si iscrisse all’Istituto Tecnico Matematico-Fisico di Palermo per poi trasferirsi a Messina nel 1917 e continuare gli studi presso l’Istituto “A. M. Jaci” di Messina dove conseguì il diploma nel 1919. Durante la permanenza in questa città conobbe il giurista Salvatore Pugliatti ed il futuro sindaco di Firenze Giorgio La Pira, con i quali strinse un’amicizia destinata a durare negli anni e con i quali nel 1917 fondò il «Nuovo Giornale Letterario» una pubblicazione mensile, sul quale pubblicò le sue prime poesie, venduta nella locale tabaccheria di uno zio di La Pira che divenne luogo di ritrovo per giovani letterati.
Nel 1919 si trasferì a Roma dove pensava di terminare gli studi di ingegneria ma, subentrate precarie condizioni economiche, dovette abbandonarli per impiegarsi in più umili attività: disegnatore tecnico presso un’impresa edile, e in seguito impiegato presso un grande magazzino. Nel frattempo collaborò ad alcuni periodici e iniziò lo studio del greco e del latino con la guida di monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, pronipote omonimo del più famoso cardinale Rampolla del Tindaro, Segretario di Stato di Papa Leone XIII. Collaborò ad alcuni periodici e studiò il greco e il latino dedicandosi ai classici, destinati anch’essi a divenire per lui fonte di ispirazione.
Le precarie condizioni economiche di questo periodo terminarono quando nel 1926 venne assunto dal Ministero dei Lavori Pubblici ed assegnato come geometra al Genio Civile di Reggio Calabria. Qui strinse amicizia con i fratelli Enzo Misefari e Bruno Misefari, entrambi esponenti (il primo comunista, il secondo anarchico) del movimento antifascista di Reggio Calabria, che lo invogliarono a ritornare a scrivere. Nello stesso anno sposò Bice Donetti, una donna di otto anni più grande, con la quale aveva convissuto ed a cui dedicherà una poesia dopo la sua morte avvenuta nel 1946.
Nel periodo di Reggio Calabria nacque la nota lirica Vento a Tindari, dedicata alla storica località presso Patti.
Il padre andò in pensione nel 1927 e dopo una breve permanenza a Firenze si ritirò definitivamente nella sua casa di Roccalumera, dove visse con due sorelle che non si erano sposate.
Molti anni dopo il poeta emigrato si raffigurerà con questi versi:
« … quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. … »
(Salvatore Quasimodo, Lettera alla madre)
Risolti i problemi economici poté dedicarsi più assiduamente alla letteratura. Fu invitato a Firenze dallo scrittore Elio Vittorini, che nel 1927 aveva sposato la sorella Rosa, che lo introdusse nei locali ambienti letterari permettendogli di conoscere Eugenio Montale, Arturo Loria, Gianna Manzini e Alessandro Bonsanti. Il Bonsanti che in quel tempo dirigeva la rivista Solaria pubblicò nel 1930 tre poesie (Albero, Prima volta, Angeli). Maturò ed affinò così il gusto per lo stile ermetico, cominciando a dare consistenza alla sua prima raccolta Acque e terre, che lo stesso anno pubblicò per le edizioni Solaria.
Nel 1931 venne trasferito presso il Genio Civile di Imperia ed in seguito presso quello di Genova. In questa città conobbe Camillo Sbarbaro e le personalità di spicco che gravitavano intorno alla rivista Circoli, con la quale il poeta iniziò una proficua collaborazione pubblicando, nel 1932, per le edizioni della stessa, la sua seconda raccolta Oboe sommerso nella quale sono raccolte tutte le poesie scritte tra il 1930 e il 1932 e dove comincia a delinearsi con maggior chiarezza la sua adesione all’ermetismo.
Ottenuto il trasferimento a Milano nel 1934, venne però destinato da un capo-ufficio alla sede di Sondrio. Nel 1938 lasciò il Genio Civile per dedicarsi alla letteratura, iniziò a lavorare per Cesare Zavattini in una impresa di editoria e soprattutto si dedicò alla collaborazione con Letteratura, una rivista vicina all’Ermetismo.
Nel 1938 pubblicò a Milano una raccolta antologica intitolata Poesie, e nel 1939 iniziò la traduzione dei lirici greci. Nel 1941 venne nominato professore di Letteratura italiana presso il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi” di Milano, incarico che mantenne fino alla fine del 1968.
Nel 1942 entrerà nella collezione Lo specchio della Arnoldo Mondadori Editore l’opera Ed è subito sera, che inglobava anche le Nuove poesie scritte tra il 1936 e il 1942.
Nel 1940, a guerra iniziata e a Patto d’Acciaio consolidato, collaborò con la rivista Primato. Lettere e arti d’Italia dove il ministro Giuseppe Bottai raccolse intellettuali di varia estrazione ed orientamento, anche lontani dal regime. Gli sarà rimproverato, in anni recenti, di aver sostenuto l’uso del voi con un intervento su un numero monografico del 1939 della rivista Antieuropa, e di aver inoltrato supplica a Mussolini perché gli venisse assegnato un contributo per potere proseguire l’attività di scrittore.
In realtà, almeno per la seconda questione si tratta di una pratica necessaria per le difficili condizioni e nel clima della dittatura che favoriva strumenti umilianti e di rapporto diretto cittadino-duce come lettere, suppliche, implorazioni. Pur professando chiare idee antifasciste, non partecipò attivamente alla Resistenza; in quegli anni si diede alla traduzione del Vangelo secondo Giovanni, di alcuni Canti di Catullo e di episodi dell’Odissea che verranno pubblicati solamente dopo la Liberazione.
Nel 1945 si iscrisse al PCI e l’anno seguente pubblicò la nuova raccolta dal titolo Con il piede straniero sopra il cuore — ristampata nel 1947 con il nuovo titolo Giorno dopo giorno —, testimonianza dell’impegno morale e sociale dell’autore che continuerà, in modo sempre più profondo, nelle successive raccolte, composte fra il 1949 e il 1958, come La vita non è sogno, Il falso e il vero verde e La terra impareggiabile, che si pongono, con il loro tono epico, come esempio di limpida poesia civile.
Durante questi anni il poeta continuò a dedicarsi con passione all’opera di traduttore sia di autori classici che moderni, e svolse una continua attività giornalistica per periodici e quotidiani, dando il suo contributo soprattutto con articoli di critica teatrale. Nel 1950 il poeta ottenne il Premio San Babila, nel 1953 condivise il premio Etna-Taormina con il poeta gallese Dylan Thomas, nel 1958 il premio Viareggio e nel 1959 gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura, che gli fece raggiungere una definitiva fama e a cui seguirono le lauree honoris causa dalla Università di Messina nel 1960 e da quella di Oxford nel 1967.
Il poeta trascorse gli ultimi anni di vita compiendo numerosi viaggi in Europa e in America per tenere conferenze e letture pubbliche delle sue liriche che nel frattempo erano state tradotte in diverse lingue. Nel 1965 cura la pubblicazione di Calignarmata, opera di poesia dell’autore Luigi Berti, uscita un anno dopo la morte di quest’ultimo (1964). Del 1966 è la pubblicazione di Dare e avere, sua ultima opera.
Nel giugno del 1968, mentre il poeta si trovava ad Amalfi, venne colpito da un ictus (aveva avuto già un infarto mentre visitava la Russia), che lo condusse alla morte dopo pochi giorni all’ospedale di Napoli. Il suo corpo fu trasportato a Milano e seppellito nel Cimitero Monumentale.
La prima raccolta di Quasimodo, Acque e terre (1930), è incentrata sul tema della sua terra natale, la Sicilia, che l’autore lasciò già nel 1919: l’isola diviene l’emblema di una felicità perduta cui si contrappone l’asprezza della condizione presente, dell’esilio in cui il poeta è costretto a vivere (così in una delle liriche più celebri del libro, Vento a Tindari). Dalla rievocazione del tempo passato emerge spesso un’angoscia esistenziale che, nella forzata lontananza, si fa sentire in tutta la sua pena. Questa condizione di dolore insopprimibile assume particolare rilievo quando il ricordo è legato ad una figura femminile, come nella poesia Antico inverno. Se in questa prima raccolta Quasimodo appare legato a modelli abbastanza riconoscibili (soprattutto D’Annunzio, del quale viene ripresa la tendenza all’identificazione con la natura), in Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936) il poeta raggiunge la piena e personale maturità espressiva.
La ricerca della pace interiore è affidata ad un rapporto col divino che è, e resterà successivamente, tormentato, mentre la Sicilia si configura come terra del mito, terra depositaria della cultura greca: non a caso Quasimodo pubblicherà, nel 1940, una notissima traduzione dei Lirici greci. In particolare, nel libro del 1936 vengono celebrati Apollo – il dio del sole ma anche il dio cui sono legate le Muse, e quindi la stessa creazione poetica che è resa dolorosa dalla distanza fisica dell’isola – ed Ulisse, l’esule per eccellenza. È in queste raccolte che si può cogliere appieno la suggestione dell’ermetismo, di un linguaggio che ricorre spesso all’analogia e tende ad abolire i nessi logici tra le parole: importante è in questo senso l’uso frequente dell’articolo indeterminativo e degli spazi bianchi, che, all’interno della lirica, sembrano rimandare continuamente a una serie di significati nascosti che non possono trovare una piena espressione.
Nelle Nuove poesie (pubblicate insieme alle raccolte precedenti nel volume Ed è subito sera del 1942 e scritte a partire dal 1936), il ritmo diventa più disteso grazie anche all’uso più frequente dell’endecasillabo: il ricordo della Sicilia è ancora vivissimo ma si avverte nel poeta un’inquietudine nuova, la voglia di uscire dalla sua solitudine e confrontarsi con i luoghi e le persone della sua vita attuale. In alcune liriche compare infatti il paesaggio lombardo, esemplificato dalla «dolce collina d’Ardenno» che porta all’orecchio del poeta «un fremere di passi umani» (La dolce collina).
Questa volontà di dialogo si fa evidente nelle raccolte successive, segnate da un forte impegno civile e politico sollecitato dalla tragedia della guerra; la poesia rarefatta degli anni giovanili lascia il posto ad un linguaggio più comprensibile, dai ritmi più ampi e distesi. Così avviene in Giorno dopo giorno (1947) dove le vicende belliche costituiscono il tema dominante. La voce del poeta, annichilita di fronte alla barbarie («anche le nostre cetre erano appese», afferma in Alle fronde dei salici), non può che contemplare la miseria della città bombardata, o soffermarsi sul dolore dei soldati impegnati al fronte, mentre affiorano alla memoria delicate figure femminili, simboli di un’armonia ormai perduta (S’ode ancora il mare). L’unica speranza di riscatto è allora costituita dalla pietà umana (Forse il cuore). In La vita non è sogno (1949) il Sud è cantato come luogo di ingiustizia e di sofferenza, dove il sangue continua a macchiare le strade (Lamento per il Sud); il rapporto con Dio si configura come un dialogo serrato sul tema del dolore e della solitudine umana. Il poeta sente l’esigenza di confrontarsi con i propri affetti, con la madre che ha lasciato quand’era ancora un ragazzo (e che continua a vivere la sua vita semplice ed ignara dell’angoscia del figlio ormai adulto), o col ricordo della prima moglie Bice Donetti. Nella raccolta Il falso e vero verde (1956) dove lo stesso titolo è indicativo di un’estrema incertezza esistenziale, un’intera sezione è dedicata alla Sicilia, ma nel volume trova posto anche una sofferta meditazione sui campi di concentramento che esprime «un no alla morte, morta ad Auschwitz» (Auschwitz).
L’ultima raccolta di Quasimodo, Dare e avere, risale al 1966 e costituisce una sorta di bilancio della propria esperienza poetica ed umana: accanto ad impressioni di viaggio e riflessioni esistenziali molti testi affrontano, in modo più o meno esplicito, il tema della morte, con accenti di notevole intensità lirica.
A Roccalumera, la sua cittadina, al Poeta viene dedicato un parco letterario, al quale collabora stabilmente Alessandro Quasimodo, attore e regista, figlio del Poeta. A Roccalumera i Quasimodo, sono nati e sono sepolti, con eccezione del Poeta, che giace, nel Famedio, cuore del Cimitero Monumentale di Milano, accanto ad Alessandro Manzoni, ed altre grandi personalità culturali.
Il Parco Letterario, che ha visto quali fondatori gli avvocati Carlo e Sergio Mastroeni[23]. In tale contesto gli organizzatori sono stati invitati a portare la loro testimonianza in vari convegni, e nell’azione comunitaria Socrates, Progetto Virtual Museum al quale hanno partecipato le Università di Riga, Malta, Copenaghen oltre prestigiose istituzioni Italiane ed Europee, che, per diverse settimane, soggiornando a Roccalumera hanno approfondito lo studio della tecnica museale del Parco roccalumerese.
Il Parco Letterario di Roccalumera è gestito dal Club Amici di Salvatore Quasimodo, organizzazione sorta per diffondere l’opera e la figura del Poeta, che ha la sua sede generale a Roccalumera, presso la Torre Saracena, con sedi istituite a Modica, a Patti-Tindari, Messina, Siracusa, Firenze e Milano. Inoltre, è stata costituita la sezione internazionale del Club, che ha la sede presso il prestigioso Istituto Italiano di Cultura di Vienna. È presieduta da Alessandro Quasimodo, con vice presidenti, Dante Arnaldo Marianacci, poeta e scrittore insignito del titolo di Amico Onorario di Salvatore Quasimodo, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Vienna, e Joseph Farrell, docente all’Università di Glasgow. Il Direttivo della Sezione Internazionale, oltre che dal Presidente Alessandro Quasimodo e dai vice presidenti, Arnaldo Dante Marianacci, quale primo vice presidente, e Joseph Farrell, quale secondo vice Presidente, è costituito da di diritto Sergio Mastroeni, quale Presidente del Consorzio per la promozione della Terra Impareggiabile di Quasimodo, che ha sede in Roccalumera; ed ancora Franco Cajani, László Cserép e Béla Szomaraky. Tra gli obiettivi, anche quello di promuovere il gemellaggio di Balatonfüred e Roccalumera in nome di Salvatore Quasimodo, la fondazione di un Premio Letterario in Italia e una scuola di lingua italiana.
A Messina, presso la Provincia Regionale, esiste una galleria culturale dedicata al poeta dove è presente una serie di immagini sia del Poeta che della famiglia e la medaglia del Nobel in oro.
Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense.
Conosciuta principalmente per le sue poesie, ha anche scritto il romanzo semi-autobiografico La campana di vetro (The Bell Jar) sotto lo pseudonimo di Victora Lucas. La protagonista del libro, Esther Greenwood, è una brillante studentessa dello Smith College, che inizia a soffrire di psicosi durante un tirocinio presso un giornale di moda newyorkese. La trama ha un parallelo nella vita di Plath, che ha trascorso un periodo presso la rivista femminile Mademoiselle, successivamente al quale, in preda a un forte stato di depressione, ha tentato il suicidio.
Assieme ad Anne Sexton, Plath è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale, iniziato da Robert Lowell e William De Witt Snodgrass. Autrice anche di vari racconti e di un unico dramma teatrale a tre voci, per lunghi periodi della sua vita ha tenuto un diario, di cui sono state pubblicate le numerose parti sopravvissute. Parti del diario sono invece state distrutte dall’ex-marito, il Poeta Laureato inglese Ted Hughes, da cui ebbe due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Morì suicida all’età di trent’anni.
Nata in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi; la madre, Aurelia Schober, apparteneva ad una famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts, abituata in casa a parlare solo tedesco, mentre suo padre, Otto Emil Plath, professore di college, figlio di genitori tedeschi, si trasferì in America a sedici anni per diventare in seguito uno stimato entomologo, in particolare in materia di api.
Sylvia Plath dimostrò un talento precoce, pubblicando la sua prima poesia all’età di otto anni. Nello stesso anno, suo padre morì di embolia in seguito ad un’operazione chirurgica (complicazioni per un diabete non diagnosticato), il 5 ottobre 1940. La scrittrice continuò a cercare di pubblicare poesie e racconti su varie riviste americane, raggiungendo un successo marginale. Sylvia Plath soffrì durante tutta la sua vita adulta per una grave forma di depressione ricorrente tra periodi di intensa vitalità. Era entrata nello Smith College con una borsa di studio nel 1950, ma nel penultimo anno fece il primo tentativo di suicidio. In seguito descrisse la crisi che l’aveva colpita nell’estate e inverno 1953 nel romanzo semi-autobiografico, La campana di vetro (The Bell Jar).
Al tentativo di suicidio segue il ricovero in un istituto psichiatrico, il McLean Hospital, dove le verrà diagnosticato il disturbo bipolare. Uscita dall’ospedale si laurea, ottenendo la lode nel 1955. Sylvia Plath ottenne una borsa di studio Fulbright per l’università di Cambridge, dove continuò a scrivere poesie, pubblicando a volte le sue opere sul giornale studentesco Varsity.
A Cambridge conobbe il poeta inglese Ted Hughes. Si sposarono il 16 giugno 1956. Plath e Hughes trascorsero il periodo dal luglio 1957 all’ottobre 1959 vivendo e lavorando negli Stati Uniti. Sylvia Plath insegnò allo Smith College. I due si trasferirono poi a Boston dove Plath partecipò a dei seminari con Robert Lowell.
Questo corso di ‘creative writing’ ebbe profonda influenza sul suo stile. L’altra frequentatrice di questo corso fu Anne Sexton. In questo periodo Plath e Hughes incontrarono per la prima volta William Merwin, il quale ammirò i loro lavori e rimase loro amico per tutta la vita. Venuti a conoscenza del fatto che Sylvia Plath era incinta, ritornarono in Gran Bretagna.
Sylvia Plath e Ted Hughes vissero per un breve periodo a Londra ed in seguito si stabilirono a North Tawton, piccola città commerciale nel Devon. Sylvia Plath pubblicò la prima raccolta di poesie, The Colossus, in Inghilterra, nel 1960. Nel febbraio 1961 abortì; diverse poesie fanno riferimento a questo evento. Il matrimonio si incrinò e i due si separarono poco dopo la nascita del loro secondo figlio. La loro separazione traumatica fu dovuta alla relazione che Hughes aveva iniziato con Assia Wevill, moglie di un amico poeta.
Sylvia Plath ritornò a Londra con i figli, Frieda e Nicholas. Affittò un appartamento in una casa dove aveva abitato William Butler Yeats; ne fu estremamente contenta e lo considerò un buon presagio quando cominciò il procedimento legale per la separazione. L’inverno tra il 1962 e il 1963 fu molto duro. Scrisse intorno a questo periodo il romanzo La campana di vetro (The Bell Jar), pubblicato nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lucas.
L’11 febbraio 1963 era passato solo un mese dalla pubblicazione del romanzo quando Sylvia Plath si tolse la vita: sigillò porte e finestre ed inserì la testa nel forno a gas, non prima di aver scritto l’ultima poesia intitolata “Orlo” ed aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini. Secondo Al Alvarez e altri studiosi, in realtà non aveva intenzione di uccidersi, ma soltanto di rivolgere all’esterno un’estrema richiesta d’aiuto, “… che disgraziatamente fece fiasco”; ella sapeva, infatti, che quella mattina sarebbe passata in visita una ragazza australiana, e aveva lasciato inoltre un biglietto con scritto un numero di telefono del suo medico, e le parole: “Per favore chiamate il dottor…”.
È seppellita nel cimitero di Heptonstall, nel West Yorkshire.
Pubblicazioni postume
Hughes si occupò dei beni letterari di Sylvia Plath. Distrusse l’ultimo volume del diario della donna, che descriveva il periodo trascorso insieme. Nel 1982, Sylvia Plath divenne la prima poetessa a vincere il Premio Pulitzer per la poesia dopo la morte (per The Collected Poems).
Molta critica femminista accusa Hughes di aver tentato di controllare le pubblicazioni postume per censura affettiva. Hughes negò ciò, anche se si accordò con la madre di Sylvia Plath, Aurelia, quando questa cercò di bloccare la pubblicazione delle opere più controverse di sua figlia negli Stati Uniti. Nella sua ultima raccolta, Birthday Letters, pubblicata prima di morire, Hughes ha rotto il silenzio, confessando alla pagina il suo irriducibile affetto per Plath. La copertina fu disegnata da Frieda Rebecca, ormai anch’ella affermata poetessa nel Regno Unito. Il peso dell’influenza di Hughes sulla poetica di Plath è oggetto di un incessante dibattito.
Opere
Alcune opere ad “edizione limitata” furono pubblicate da editori specialisti, spesso in numero esiguo.
Poesia
The Colossus (1960)
Poppies in July (1962)
Ariel (Plath)|Ariel (1965)
Crossing the Water (1971)
Winter Trees (1972)
The Collected Poems (1981)
Prosa
La campana di vetro (The Bell Jar, 1963) sotto lo pseudonimo di ‘Victoria Lucas’
Letters Home (1975) a cura di sua madre
Johnny Panic and the Bible of Dreams (1977) (l’edizione inglese contiene due storie che quella statunitense non possiede)
The Journals of Sylvia Plath (1982)
The Magic Mirror (1989), la sua tesi di laurea allo Smith College
The Unabridged Journals of Sylvia Plath, a cura di Karen V. Kukil (2000)
Libri per bambini
The Bed Book (1976)
The It-Doesn’t-Matter-Suit (1996)
Collected Children’s Stories (UK, 2001)
Mrs. Cherry’s Kitchen (2001)
APPROFONDIMENTI
Nell’estate del 1953 ci fu il primo serio tentativo di suicidio: dopo aver ingerito un intero flacone di sonniferi fu trovata in fin di vita dal fratello, nascosta nello scantinato di casa. Ricoverata, subi l’elettroshock come un’esperienza terribile ed atroce. Il racconto di quell’estate è stato da lei romanzato nello splendido (ed unico) romanzo che abbia mai scritto: “La campana di vetro”. Una borsa di studio la portò in Inghilterra e a Cambridge; conobbe e sposò il poeta Ted Hughes, con cui ebbe due figli. Nel 1962 la separazione dal marito (che aveva un amante). Nel 1963 il suicidio.
Frieda Rebecca nascerà il 1 aprile 1960. Il 6 febbraio 1961 Sylvia ebbe un aborto spontaneo che trasporterà nella poesia Parliament Hills Fields. Nicholas Farrar nascerà il 17 gennaio 1962. Il 18 maggio dello stesso anno Sylvia Plath e Ted Hughes conosceranno i loro vicini, il poeta David Wevill e Assia Gutman: tra Assia e Ted scatterà un’attrazione immediata, lo riconoscerà 35 anni dopo, Ted, nelle sue Lettere di Compleanno; se ne rende conto Sylvia subito e il giorno dopo scriverà Event e Rabbit Chatcher. Tra giugno e luglio del 1962 Assia e Ted diventeranno amanti, il 9 luglio Sylvia affronterà Ted, prenderà i bambini e andrà via di casa, dirà in seguito a proposito: “Quando dai a qualcuno tutto il tuo cuore e lui non lo vuole, non puoi riprenderlo indietro. Se ne è andato per sempre”. La separazione da Ted e il dolore non verranno più confidate ai Diari, ma alle Letters Home (di difficile reperibilità in Italia) destinate alla madre e al fratello. Il 1962 e i mesi precedenti al suicidio segneranno il periodo più prolifico di Sylvia, tanto che alla madre scriverà: “(…) sono una scrittrice di genio:ce l’ho dentro. Sto scrivendo le poesie migliori della mia vita; mi daranno la fama”. L’8 febbraio dell’anno dopo Ted cercherà una riconciliazione, nessuno saprà cosa accadde. L’11 febbraio Sylvia si toglie la vita.
“Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa, muore. Ma non si può ricominciare a ogni nuovo attimo, ci si deve basare su quelli già morti. È un po’ come le sabbie mobili… senza scampo fin dall’inizio. Un racconto, un quadro, possono far rivivere un poco la sensazione, ma mai abbastanza, mai abbastanza. Niente è reale, eccetto il presente, e io mi sento già soffocare sotto il peso dei secoli. Un centinaio di anni fa una ragazza ha vissuto come vivo io. Poi è morta. Io sono il presente, ma so che anch’io me ne andrò. L’istante sublime, la fiamma che consuma arriva e subito scompare: sabbie mobili, sempre. E io non voglio morire”.
Sylvia Plath tra poesia e mito
I think I would like to call myself “The girl who wanted to be God”
(Sylvia Plath, Words)
Perché continuiamo a leggere Sylvia Plath, a cinquantadue anni dalla sua morte, e ad immedesimarci nei suoi scritti?
Perché Sylvia Plath incarna e simboleggia la dicotomia che ogni donna (e, in una certa misura, ogni essere umano) si trova ad affrontare: l’eterna lotta tra essere e dover essere, tra io privato e io pubblico. La disperata ricerca di conformarsi allo stereotipo di ragazza americana (sana, bella, intelligente, simpatica, sportiva, competitiva) cercando di nascondere, dietro questa patina dorata, il suo essere una ragazza di vetro sotto una campana di vetro.
Questa dicotomia viene analizzata da Ginevra Bompiani nel suo Lo spazio narrante, e viene messa in relazione con la poetica della Plath.
Nell’estate del 1954, Sylvia cerca di dare forma concreta (e ironica) alle contraddizioni che le straziano l’anima (l’anno precedente la ragazza aveva cercato di uccidersi ed era stata ricoverata in una serie di cliniche psichiatriche, dove aveva sperimentato una delle sue più grandi paure, l’elettroshock; l’intera esperienza viene raccontata dalla Plath nel suo unico romanzo, The Bell Jar, La campana di vetro) tingendosi i capelli biondo platino.
Il suo io biondo platino rappresenta il suo tentativo di ribellarsi all’io bruno, “…la grigio vestita, sobria, bevitrice d’acqua, presto-a-letto, economa, pratica ragazza che ero diventata…” (da una lettera alla madre del 13 ottobre 1954).
Non stupisce dunque che Sylvia abbia scelto come argomento di tesi il tema della doppia personalità in Dostoevskij, né che elementi come lo specchio, l’acqua, il riflesso, le ombre, i gemelli diventino parte integrante dell’immaginario mitico della sua poesia. La cura rigorosa, quasi maniacale della forma e dello stile serve a contenere, a plasmare quelle poesie che “…non sono ispirate da nient’altro che un ago o un coltello o quel che sia” (da una dichiarazione per la BBC del 1963, prima di un suo reading di poesie).
Non c’è tuttavia una contraddizione tra un “io vero” e un “io falso” nella Plath: la poetessa accetta il mondo per quello che è, pur vedendolo come una comunità a lei estranea in cui ha bisogno di essere riconosciuta.
Per questo motivo Sylvia cerca di conformarsi e di accettare quelle regole che la vogliono studentessa modello, figlia affezionata, moglie innamorata, madre devota. La Sylvia delle lettere è la Sylvia pubblica, la Sylvia bruna: tutta la vita degli affetti appare nelle sue corrispondenze costante e tale da riscuotere l’approvazione dell’Americano medio. Nelle lettere, Sylvia dichiara di amare sua madre, suo fratello, le amiche, i bei ragazzi alti e sportivi.
La Sylvia bionda, che non ha bisogno di essere riconosciuta, emerge nelle sue poesie: qui viene fuori l’odio/amore per la madre, garante della Sylvia convenzionale, che si rifiuta di accettare la confusione, i problemi mentali della figlia.
Le lettere di Sylvia alla madre sono sempre piene di affetto e di riconoscenza nei suoi confronti, in contraddizione con l’insofferenza e il rancore che emergono in The Bell Jar; Aurelia, la madre-vampiro, non deve, non può vedere sua figlia come quel calice di cristallo, prossimo a frantumarsi, come quella ragazza di vetro dentro una campana di vetro dopo che Ted l’ha lasciata. Silvia, spezzata dal dolore, proibisce alla madre di raggiungerla a Londra.
Un’altra delle colpe imputate alla madre Aurelia è la morte del padre Otto. Quest’ultimo aveva deciso che sarebbe morto precocemente di malattia e si era autodiagnosticato un tumore, chiudendosi nelle sue stanze e vivendo totalmente alienato dai figli. In realtà, Otto sarebbe morto nel 1940 di diabete. Per Sylvia, il padre avrebbe rappresentato, nel suo immaginario poetico, la volontà di morte.
Altro rapporto problematico è quello col fratello Warren. A due anni e mezzo, mentre Sylvia cammina sulla riva del mare (che identifica come il suo elemento naturale; appena in grado di gattonare, Aurelia l’aveva portata sulla spiaggia e Sylvia si era diretta con decisione verso l’onda) le viene annunciato l’arrivo del fratello.
La bambina, mentre riflette su quest’inaspettata notizia dalle prospettive incerte, avverte per la prima volta la “separatezza” di ogni cosa:
Avvertii la parete della mia pelle: Io sono Io. Questa pietra è una pietra. La mia meravigliosa fusione con le cose di questo mondo era finita.
Sylvia definisce quel giorno “l’orribile compleanno dell’alterità”, data in cui ha inizio il suo esilio dall’unità.
Tutti questi elementi si ritrovano nell’immaginario poetico di Sylvia, che la Bompiani ricollega a quello che Northrop Frye in The Secular Scripture definisce “the Night World”, la terza fase di discesa negli Inferi, nell’utero della terra. Questa fase è caratterizzata da sofferti riti di passaggio, parte del ciclo della morte e della rinascita; da sacrifici umani; da una progressiva, solitaria alienazione; da figure oracolari e dal tema del Doppelgänger, il doppio, che si ritrova in elementi quali lo specchio.
Nella raccolta The Colossus (Il Colosso), la figura maschile è legata all’abisso e alle profondità marine. I suoi colori sono quelli dei fondali dell’abisso: il fango, il nero, il verde.
La figura femminile appartiene invece alla superficie; è algida e fredda, pallida come la luna, bianca come il ghiaccio.
La sapienza di questo mondo di uomini marini e vergini lunari è oracolare: la conoscenza non arreca sollievo e non può essere salvifica, ma pura consapevolezza di un destino ineluttabile.
Il sangue invece è la vita, il suo calore, la terra, il corpo, il sesso: non a caso il primo rapporto sessuale di Sylvia/Esther in The Bell Jar culmina in un’emorragia.
Le nozze di Sylvia e Ted sono nozze di sangue: nella sua poesia Pursuit (Inseguimento), Sylvia scrive:
There is a panther stalks me down:
One day I’ll have my death of him;
…
I hurl my heart to halt his pace,
To quench his thirst I squander blood;
He eats, and still his need seeks food,
Compels a total sacrifice.
(C’è una pantera che m’incalza:
un giorno me ne vorrà morte.
…
Scaglio il mio cuore per fermarne il passo,
per spegnerne la sete effondo il sangue;
lui mangia, e ancora il suo bisogno vuole cibo,
pretende un assoluto sacrificio.)
(da Sylvia Plath – Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano).
Da queste nozze di sangue nasce la Sylvia, poetessa.
Not easy to state the change you made
If I’m alive now, then I was dead.
Though, like a stone, unbothered by it,
Staying put according to habit.
You didn’t toe me just an inch, no –
(Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingere un po’ col piede, no –
(Love Letter – Lettera d’amore, da Sylvia Plath – Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano).
Dopo il matrimonio con Ted, la maternità diventa un altro elemento essenziale della poesia di Sylvia: è per la poetessa un’esperienza profondamente simbolica e salvifica, perché trasmette la vita. La madre si rigenera nel figlio, mentre il padre scompare (come Otto era scomparso per la sua volontà di morte, come Ted scompare per inseguire Assia).
Nel suo poemetto a tre voci Three Women (Tre donne), trasmesso dalla BBC nell’agosto del 1962, la maternità viene rappresentata in tutti i suoi aspetti e tutti i suoi contrasti, senza idilli né idealizzazioni. Le protagoniste sono tre donne: una ragazza madre che abbandona il bambino (il rifiuto); una donna che lo perde (l’incapacità; Sylvia stessa perde un bambino, tra Frieda e Nicholas); la donna che abbraccia la sua nuova condizione di madre (l’accettazione).
La Bompiani osserva che il viaggio poetico di Sylvia coincide anche col suo viaggio esistenziale: la maturità poetica coincide con la fine del viaggio.
Al Alvarez, saggista inglese che era anche stato amico della Plath, nel suo The Savage God, una riflessione sul suicidio, osserva che “la poesia di quest’ordine è un’arte omicida”: la poesia succhia a Sylvia la vita che le è rimasta, taglia i suoi ultimi legami col mondo, traduce in morte il desiderio di morte. I versi sono specchio ed emulazione di una tragedia per attrice sola, un monologo che vede come protagonista Sylvia, chiusa nella sua campana di vetro, in un freddissimo inverno londinese.
La poesia, non l’amore, ha fatto nascere e rinascere Sylvia Plath.
Attraverso la poesia Sylvia Plath conosce e riconosce la realtà, quella stessa realtà che non riesce ad accettare.
Di quella stessa poesia la ragazza di vetro, la ragazza che voleva essere Dio, muore.
Scrive Robert Lowell, nella prefazione di “Ariel”:
E’ straziante, riandando al passato, capire che il segreto dell’ultima irresistibile fiammata di Sylvia Plath e’ nascosto nella discrezione, nel garbo estremo della sua penosa timidezza. Non e’ mai stata una mia allieva, ma per due mesi circa, sette anni fa, segui’ il mio corso di poesia alla Boston University. La rivedo, opaca contro il cielo luminoso di una finestra priva di qualsiasi panorama ….. Era alta, snella, con il busto lungo e fragile, i gomiti aguzzi, era nervosa, imbarazzata, gentile — una presenza tesa e brillante che la timidezza paralizzava. La sua umiltà, la sua disponibilità ad accettare tutto quanto veniva generalmente ammirato parevano darle a volte un’esasperante docilità che nascondeva la sua pazienza e la sua audacia fuori moda. Ci mostro’ allora poesie che in seguito, più o meno cambiate, vennero pubblicate nel suo primo libro, The Colossus. Erano poesie dai toni bassi, perfette nella struttura, facili all’allitterazione e a un’angoscia dolente ed intimista. Un bastardo che si sforza di galoppare / Spinge lo sciame dei gabbiani a volar via dal litorale
Non prestai allora, ne’ saprei dire perché, un’attenzione molto profonda a nessuna di quelle poesie. Avvertii la sua raffinatezza, la sua confusione, e non seppi immaginare la sua stupefacente, trionfante completezza futura”
“In queste poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita e spesso tumultuosamente composte in ragione di due o tre al giorno, Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un’entità immaginaria, appena creata……non un individuo, ne’ una donna, ne’ certo un’altra ‘poetessa’, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali, ipnotiche. (…..) Tutto in queste poesie e’ personale, una confessione profondamente sentita, ma in lei il modo di sentire e’ una controllata allucinazione, l’autobiografia di una febbre. Brucia dall’ansia di muoversi, per una passeggiata, una cavalcata, un viaggio, il volo dell’ape regina, costretta ad avanzare dal battito ansante del suo cuore. Il titolo Ariel evoca il personaggio shakespeariano, lo spiritello adorabile ma curiosamente agghiacciante nella sua ambiguità virile, ma per la verità Ariel e’ qui il cavallo dell’autrice. Pericolosa, più potente dell’uomo, efficiente come una macchina grazie ad un duro allenamento, lei stessa ricorda un cavallo da corsa, che galoppa senza sosta tendendo spasmodicamente il collo, superando uno dopo l’altro ostacoli di morte. (….) Ma quanto vi e’ in lei di più eroico non e’ la sua forza, piuttosto la disperata semplicità del suo controllo, la sua mano d’acciaio dal tocco modesto, femminile. …..”
“Il mio problema? Non abbastanza libertà di pensiero, freschezza di linguaggio. Troppi cliché e troppe associazioni forzate, annidati nel subcosciente. Poca originalità. Troppa cieca adorazione per i poeti moderni e poca analisi e pratica.” (Sylvia Plath, Diari)
La mattina dell’11 febbraio del 1963, esattamente 50 anni fa, Sylvia Plath preparava la colazione per i suoi due bambini, ancora addormentati, nel suo appartamento di Londra. Deponeva sul comodino pane e latte e spalancava la finestra della loro stanza. Poi si recava in cucina, sigillava la porta, infilava la testa nel forno, apriva il gas e si suicidava. Aveva solo 31 anni e non poteva immaginare che, dopo la sua morte, sarebbe stata considerata una delle voci poetiche più potenti del Novecento e che il suo gesto sarebbe diventato il simbolo delle rivendicazioni femministe di mezzo mondo.
Fino alla fine della sua esistenza, la Plath si sentì in bilico tra la volontà di realizzarsi come scrittrice e la necessità di incarnare il modello di moglie e madre chiuso nei rigidi schemi degli anni Sessanta: lo stesso mondo asfittico perfettamente descritto da Richard Yates nel bellissimo Revolutionary Road . Fu un periodo terribile per le donne, specie se intelligenti e ambiziose. La battaglia per l’emancipazione femminile doveva ancora iniziare e il conformismo, i rigidi schemi sociali, l’isolamento in cui si rischiava di precipitare in seguito a disturbi depressivi venivano curati solo a suon di valium e elettroshock, come la stessa Plath ebbe modo di sperimentare.
Oggi più che mai vale la pena di conoscere quest’autrice. Imprescindibili i Diari , le Poesie – appena ripubblicate negli oscar Mondadori con il testo inglese a fronte – e il suo unico romanzo : tutti carichi di pareri illuminanti sulle donne, la maternità, il matrimonio, il tradimento, la depressione e il suicidio. Questo è ciò che Sylvia Plat ci ha lasciato, riassunto in cinque riflessioni.
– Un messaggio rivolto a tutte le donne, da non dimenticare. Poco prima di suicidarsi Plath scrisse un romanzo profondamente autobiografico, La campana di vetro . Vi narrò la propria storia, utilizzando come protagonista una promettente studentessa schiacciata dalla società newyorkese degli anni Cinquanta. Ancora oggi questo libro è un attualissimo diario di disperazione e proprio per questo rappresenta un invito potente a non arrendersi e a reagire. Perché nessuno ceda a farsi volontariamente annientare dalla campana di vetro che ci circonda, qualunque essa sia.
– Un modo naturale e nuovo per avvicinarci alla poesia. Quando si leggono i suoi versi è difficile non pensare di conoscere personalmente questa autrice. Il suo mondo è il nostro, perché parla di cose semplici e vere: dalla sensazione che si prova avendo un dito tagliato mentre si affettano le verdure al modo giusto per prendere un bambino per mano, all’allegria dei palloncini tenuti in casa dopo il giorno di Natale. Tante piccole cose, esperienze reali e vicine che appartengono al vissuto di ognuno di noi.
– Un invito a coltivare le proprie passioni, sempre. Sylvia faceva la mamma di giorno e scriveva di notte. Si dedicò strenuamente a realizzare se stessa e, tra mille sofferenze, ci riuscì. Purtroppo non lo seppe mai, ma nel 1982 la sua dedizione le valse anche il premio Pulitzer per la poesia come riconoscimento postumo.
– Un linguaggio potente e preciso basato sulle parole comuni. Le parole utilizzate da questa scrittrice non sono auliche o ricercate. Forse proprio per questo riescono ad essere sempre perfette. Entrano e restano nei nostri pensieri, restituendo immagini precise e indelebili.
– Un registro unico per scrivere e comunicare. Le sue opere sono state un atto d’amore che ha rivoluzionato la poesia e la scrittura. La sua euforia, l’intensità e la forza presenti nelle sue creazioni sono tangibili, scavano nella nostra mente e arrivano dritte a destinazione. E lì restano. Sono un monito contro ogni depressione e ci danno la certezza di aver incontrato una grande scrittrice.”
Antonella Sbriccoli – Panorama
Antonio Guerra conosciuto come Tonino Guerra (Santarcangelo di Romagna, 16 marzo 1920 – Santarcangelo di Romagna, 21 marzo 2012) è stato un poeta, scrittore e sceneggiatore italiano.
Maestro elementare, nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, viene deportato in Germania e rinchiuso in un campo d’internamento a Troisdorf.
« Mi ritrovai con alcuni romagnoli che ogni sera mi chiedevano di recitare qualcosa nel nostro dialetto. Allora scrissi per loro tutta una serie di poesie in romagnolo. »
Guerra, che conosceva a memoria i Sonetti romagnoli di Olindo Guerrini, li recita per i compagni di prigionia per distrarli dall’angoscia e dalla nostalgia di casa. Poi inizia ad inventare nuove poesie, che un amico copia per lui a mano.
Dopo la Liberazione, si laurea in pedagogia presso l’Università di Urbino (1946), con una tesi orale sulla poesia dialettale. Fa leggere le poesie composte nel campo di prigionia a Carlo Bo; ottenuti riscontri positivi, decide di pubblicarle, a sue spese. La raccolta s’intitola I scarabocc (Gli scarabocchi); Bo ne firma la prefazione. Attorno a lui si forma a Santarcangelo un gruppo spontaneo di giovani poeti, di cui fanno parte anche Raffaello Baldini, Nino Pedretti, Gianni Fucci e altri. Il gruppo si riuniva al “Caffè Trieste”, il bar gestito dai genitori di Raffaello Baldini. I poeti lo ribattezzarono goliardicamente «E’ circal de giudêizi» (“Il circolo della saggezza”).
Al 1952 risale l’esordio come prosatore con un breve romanzo, La storia di Fortunato. Nel 1953 si trasferisce a Roma, dove avvia una fortunata attività di sceneggiatore. Nella sua lunga carriera ha collaborato con alcuni fra i più importanti registi italiani del tempo (Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi, i fratelli Taviani, ecc.). Dalla collaborazione con il regista ferrarese Antonioni, gli giungerà anche la nomination al premio Oscar nel 1967, per il film Blow-Up. Negli anni ottanta torna in Romagna. Dal 1989 vive e lavora a Pennabilli, centro del Montefeltro romagnolo, che gli ha conferito la cittadinanza onoraria in riconoscenza dell’amore dimostrato nei confronti di questo territorio.
«Piano piano ti prende quella lentezza di gesti quasi da uomo primitivo e siedi su lunghe e semplici panchine artigianali e ti pieghi a toccare l’ erba magari per accarezzare una margherita.»
Qui ha dato vita a numerose installazioni artistiche. Si tratta di mostre permanenti che prendono il nome de I Luoghi dell’anima tra cui: L’Orto dei frutti dimenticati, Il Rifugio delle Madonne abbandonate, La Strada delle meridiane, Il Santuario dei pensieri, L’Angelo coi baffi, Il Giardino pietrificato. “Il Giardino pietrificato” è stato materialmente realizzato dallo scultore Giovanni Urbinati. Una sua installazione artistica, “L’albero della memoria”, è presente anche a Forlì, presso i Giardini Orselli. Guerra divenne famoso presso il grande pubblico nel 2001, come testimonial della catena di negozi di elettronica UniEuro, creando il tormentone dell’ottimismo (<em>”Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita!”</em>), ripreso tra gli altri dal suo compaesano, e pronipote, Fabio De Luigi in un suo personaggio comico, l’Ingegner Cane.
Nel 2006 appare nel documentario Mattotti di Renato Chiocca, leggendo un estratto dalla sua raccolta di racconti Cenere. Nel 2010, in occasione dei suoi 90 anni, riceve il David di Donatello alla carriera. Il 10 novembre 2010 è stato insignito dall’Università di Bologna del Sigillum Magnum. È il padre del noto compositore di musiche per film e sceneggiati Andrea Guerra.
Muore all’età di 92 anni a Santarcangelo il 21 marzo 2012, in coincidenza con la celebrazione della Giornata Mondiale della Poesia istituita dall’Unesco. Le sue ceneri sono state incastonate nella roccia, al di sopra della sua Casa dei mandorli a Pennabilli, nel punto in cui si ammira la vallata, paese in cui ha abitato negli ultimi 25 anni e di cui ha detto “è il posto dove trovi te stesso!”. Tonino Guerra era ateo.
A partire dal 2009 il Bif di Bari assegna un Premio intitolato a Tonino Guerra per il miglior soggetto (dal 2012 miglior sceneggiatura) tra i film del festival.
Nel 2012 la rock band bresciana dei NoAlter gli dedica il CD “Démodé”. All’interno della copertina si può infatti leggere la dicitura “Dedicato a Tonino Guerra e Fernanda Pivano”.
Durante la cerimonia per la consegna dei Premi Oscar 2013, compare all’interno del video Ad Memoriam.
Wisława Szymborska (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1º febbraio 2012) è stata una poetessa e saggista polacca.
Premiata con il Nobel nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni. In Polonia, i suoi volumi raggiungono cifre di vendita che rivaleggiano con quelle dei più notevoli autori di prosa, nonostante in un’occasione Szymborska abbia ironicamente osservato, nella poesia intitolata Ad alcuni piace la poesia (Niektorzy lubią poezje), che la poesia piace a non più di due persone su mille.
Nel 1931 Szymborska si trasferì con la famiglia a Cracovia, città alla quale è stata sempre legata: vi ha studiato, vi ha lavorato e vi ha sempre soggiornato, da allora fino alla morte. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939, continuò gli studi liceali sotto l’occupazione tedesca, seguendo corsi clandestini e conseguendo il diploma nel 1941. A partire dal 1943, lavorò come dipendente delle ferrovie e riuscì a evitare la deportazione in Germania come lavoratrice forzata. In questo periodo cominciò la sua carriera di artista, con delle illustrazioni per un libro di testo in lingua inglese. Cominciò inoltre a scrivere storie e, occasionalmente, poesie.
Sempre a Cracovia, Szymborska cominciò nel 1945 a seguire in un primo momento i corsi di letteratura polacca, per poi passare a quelli di sociologia, presso l’Università Jagellonica, senza però riuscire a terminare gli studi: nel 1948 fu costretta ad abbandonarli a causa delle sue scarse possibilità economiche. Ben presto venne coinvolta nel locale ambiente letterario, dove incontrò Czesław Miłosz, che la influenzò profondamente.
Nel 1948 sposò Adam Włodek, dal quale divorziò nel 1954. In quel periodo, lavorava come segretaria per una rivista didattica bisettimanale e come illustratrice di libri. In seguito si sposò con lo scrittore e poeta Kornel Filipowicz, che morì nel 1990.
La sua prima poesia, Szukam słowa (Cerco una parola), fu pubblicata nel marzo 1945 sul quotidiano «Dziennik Polski». Le sue poesie furono pubblicate con continuità su vari giornali e periodici per parecchi anni; la prima raccolta Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) venne pubblicata molto più tardi, nel 1952, quando la poetessa aveva 29 anni.
In effetti, negli anni quaranta la pubblicazione di un suo primo volume venne rifiutata per motivi ideologici: il libro, che avrebbe dovuto essere pubblicato nel 1949, non superò la censura in quanto «non possedeva i requisiti socialisti». Ciò nonostante, come molti altri intellettuali della Polonia post-bellica, nella prima fase della sua carriera Szymborska rimase fedele all’ideologia ufficiale della PRL: sottoscrisse petizioni politiche ed elogiò Stalin, Lenin e il realismo socialista. Anche la poetessa-Szymborska cercò in seguito di adattarsi al realismo socialista: il primo volume di poesie del 1952 contiene infatti testi dai titoli come Lenin oppure Młodzieży budującej Nową Hutę (Per i giovani che costruiscono Nowa Huta), che parla della costruzione di una città industriale stalinista nei pressi di Cracovia. Aderì anche al PZPR (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, «partito operaio unito polacco»), del quale fu membro fino al 1960.
Tuttavia, in seguito la poetessa prese nettamente le distanze da questo «peccato di gioventù», come da lei stesso definito, al quale è da ascrivere anche la seguente raccolta Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa) del 1954. Anche se non si distaccò dal partito fino al 1960, cominciò ben prima a instaurare contatti con dissidenti. Successivamente Szymborska ha preso le distanze dai suoi primi due volumi di poesie.
Dal 1953 al 1966 fu redattrice del settimanale letterario di Cracovia «Życie Literackie» («Vita letteraria»), al quale ha collaborato come esterna fino al 1981. Sulle pagine di questa pubblicazione è apparsa la serie di saggi Lektury nadobowiązkowe (Letture facoltative), che sono state successivamente pubblicate, a più riprese, in volume.
Nel 1957 fece amicizia con Jerzy Giedroyc, editore dell’influente giornale degli emigranti polacchi «Kultura», pubblicato a Parigi, al quale contribuì anche lei.
Il successo letterario arrivò con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957.
Dal 1981 al 1983, fu redattrice del mensile di Cracovia «Pismo». Negli anni ottanta intensificò le sue attività di opposizione, collaborando al periodico samizdat «Arka» con lo pseudonimo «Stanczykówna» e a «Kultura». Si impegnò per il sindacato clandestino Solidarność.
Dal 1993 pubblica recensioni sul supplemento letterario del «Gazeta Wyborcza», importante quotidiano polacco.
Nel 1996 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà».
Ha anche tradotto dal francese al polacco alcune opere del poeta barocco francese Théodore Agrippa d’Aubigné.
Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Pietro Marchesani ha tradotto la maggior parte delle sue raccolte poetiche in italiano; Karl Dedecius ha diffuso le sue poesie in tedesco; il Premio Nobel Czesław Miłosz ha tradotto vari testi in inglese, seguito poi da Joanna Maria Trzeciak e dalla coppia di traduttori Stanislaw Baranczak e Clare Cavanagh.
La sua più recente raccolta poetica, Dwukropek (Due punti), apparsa in Polonia il 2 novembre 2005, ha riscosso uno strepitoso successo, vendendo oltre quarantamila copie in meno di due mesi.
Dopo diversi mesi di malattia, il 1º febbraio 2012, Szymborska è scomparsa nel sonno presso la sua casa a Cracovia.
Dopo essere stata cremata è stata sepolta nella tomba di famiglia.
Szymborska preferiva usare il verso libero nelle sue poesie. Le sue opere sono contraddistinte, dal punto di vista linguistico, da una grande semplicità. Szymborska utilizza espedienti retorici quali l’ironia, il paradosso, la contraddizione e la litote, per illustrare i temi filosofici e le ossessioni sottostanti. Szymborska è una miniaturista, le cui poesie compatte spesso evocano ampi enigmi esistenziali.
Spesso mostrano il mondo in un’ottica inusuale es. “‘Vista con granello di sabbia’”
Benché molte delle sue poesie siano lunghe una pagina appena, esse toccano spesso argomenti di respiro etico che riflettono sulla condizione delle persone, sia come individui che come membri della società umana. Lo stile di Szymborska si caratterizza per l’introspezione intellettuale, l’arguzia e la succinta ed elegante scelta delle parole. Non mancano, d’altra parte, aperte denunce di carattere universale sullo stato delle cose.
Il critico tedesco Marcel Reich-Ranicki ha affermato: «È la poetessa più rappresentativa della sua nazione, la cui poesia lirica, ironica e profonda, tende verso la poesia lirica filosofica». Il traduttore italiano, Pietro Marchesani, ha indicato nell’incanto il tratto più significativo dei suoi versi. La Szymborska stessa, è stato ricordato, individua l’origine della poesia nel silenzio.
Yiannis Ritsos nacque a Monemvasià nel 1909. Dopo un’infanzia segnata da gravi lutti familiari, nel 1926, colpito da tisi, fu ricoverato in sanatorio, dove rimase per tre anni. In seguito esercitò la professione di attore-ballerino e di copista in una banca. Nel 1933 entrò nelle file della sinistra, avviando un impegno politico che segnerà, spesso dolorosamente, la sua esistenza. Durante la guerra civile, il successivo governo di destra e la dittatura dei Colonnelli (1967-1974) fu ripetutamente incarcerato e deportato nei “campi di rieducazione nazionale”, ma restò sempre fedele ai suoi ideali di libertà e di giustizia sociale. L’impegno politico ebbe un’importanza centrale anche nella sua poesia, ma in Ritsos risuonano tutte le note, dolenti e gioiose, della grecità.
Ottenne numerosi riconoscimenti internazionali di grande prestigio, e fu candidato per anni al Premio Nobel per la Letteratura. Le sue poesie e molti suoi lavori teatrali sono stati tradotti in tutte le lingue europee.
Dotato di un’incredibile facilità di versificazione, Ritsos è autore di oltre cento raccolte, tra le quali segnaliamo Trattore (1934); Piramidi (1935); Epitaffio (1936); Sinfonia di primavera (1938); La marcia dell’oceano (1940); L’uomo con il garofano (1952); Veglia (1954: contiene Grecità e La Signora delle Vigne); I quartieri del mondo (1957); Quando arriva lo straniero (1958); L’architettura degli alberi (1958); Le vecchie e il mare (1959); Sotto l’ombra del monte (1962); Dodici poesie per Kavafis (1963); Testimonianze I (1963); Filottete (1965); Testimonianze II (1966); Gesti (1969-70); Pietre Ripetizioni Sbarre (1972); Elena (1972); Crisòtemi (1972); Quarta dimensione (1972); Diciotto canzonette per la patria amara (1973); Graganda (1973); La distruzione di Melos (1974); Inno e lamento per Cipro (1974); La pignatta affumicata (1974); Il muro nello specchio (1974); Diario d’esilio (1975); L’ultimo secolo prima dell’uomo (1975); Attualità (1975); Divenire (1977); La Porta (1978); Il corpo e il sangue (1978); Una lucciola illumina la notte (1978); Trittico italiano (1976-81, contiene: Trasfusione, Il mondo è uno, La statua sotto la pioggia); Erotica (1980-81).
Ha inoltre tradotto Tolstoj, Hikmet, Ehrenburg, Jozef, Majakovskij, un’antologia di poeti rumeni e una di poeti cecoslovacchi.
È morto nel 1990.
È stato tradotto nelle principali lingue del mondo.
Numerose le traduzioni in italiano, la maggior parte delle quali dovute a N. Crocetti: La Signora delle Vigne, Parma 1986 (con importanti riferimenti bibliografici); Erotica (1981); Il Funambolo e la Luna (1984, in questa collana, Lèkythos 4); Quarta dimensione (1993, in questa collana, Lèkythos 18), e a F.M. Pontani: Poesie (Scheiwiller 1969); Prima dell’uomo (Mondadori 1972); Diciotto canzonette per la patria amara (Verona 1974); La distruzione di Melos (Bologna 1975); Elena (Verona 1985); Pietre Ripetizioni Sbarre (2004, in questa collana, Lèkythos 35).
Ritsos è considerato come uno dei più grandi poeti greci del ventesimo secolo, insieme a Konstantinos Kavafis, Kostis Palamas, Giorgos Seferis, e Odysseus Elytis. Il poeta francese Louis Aragon una volta ha detto che Ritsos era “il più grande poeta del suo periodo”. Ritsos è stato proposto 9 volte, senza successo, per il Premio Nobel per la Letteratura. Quando il poeta vinse il Premio Lenin per la pace (conosciuto anche come il Premio Stalin per la Pace), assegnatoli nel 1975-76, egli dichiarò che “questo premio è più importante per me rispetto al Premio Nobel”.
La sua poesia è stata vietata occasionalmente in Grecia per il suo carattere “politico” di soddisfare certe idee di sinistra. Il lavoro importante del poeta comprende Trattori (1934), Piramidi (1935), Epitaffio (1936), e Veglia (1941–1953).
Ritsos principalmente ha scritto le poesie con un intento politico, “servendo il comunismo con la sua arte”, come i filologi moderni lo descrivono. Una delle sue poche opere che differiscono da questo tema politico è “La sonata al chiaro di luna”.
Io so che ognuno di noi corre da solo all’amore,
da solo alla fede e alla morte.
Io lo so. Io l’ho provato. Questo non aiuta.
Lasciami venire con te.
—da Sonata al chiaro di luna. Traduzione in italiano dalla traduzione inglese di Peter Green e Beverly Bardsley
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