INTRODUZIONE ALLA POESIA
Chiedo loro di prendere una poesia
e di tenerla in alto controluce
come una diapositiva a colori
o di premere un orecchio sul suo alveare.
Dico loro di gettare un topo in una poesia
e osservarlo mentre cerca di uscire,
o di entrare nella stanza della poesia
e cercare a tentoni l’interruttore sul muro.
Voglio che facciano sci d’acqua
sulla superficie di una poesia e salutino
con la mano il nome dell’autore sulla spiaggia.
Ma la sola cosa che loro vogliono fare
è legarla con una corda a una sedia
e torturarla finché non confessi.
La picchiano con un tubo di gomma
per scoprire che cosa davvero vuol dire.
§
LO SFORZO
C’è nessuno che voglia unirsi a me
nel lanciare alcuni sassi verso
quegli insegnanti che amano porre la domanda:
“Che cosa sta cercando di dire il poeta?”
come se Thomas Hardy e Emily Dickinson
si fossero sforzati ma alla fine avessero fallito:
disgraziati incapaci di parlare, che altro non erano,
con la penna in bocca a guardare fuori dalla finestra in attesa d’un idea.
Sì, sembra che Whitman, Amy Lowell
e tutti gli altri potessero solo tentare e fallire,
ma noi nella classe di Inglese della terza ora della prof Parker
qui al Liceo di Springfield ce la faremo
con l’aiuto di questi questionari di comprensione
a dire quel che il povero poeta non riusciva a dire,
e faremo tutto questo prima
dell’orgia dell’insalata di uova e tonno nota come pranzo.
Stasera, tuttavia, io sono quello che cerca
di dire che cosa significa questa assenza,
noi due che dormiamo e ci svegliamo sotto due diversi tetti.
L’immagine di questo vaso di fiori recisi,
non del nostro giardino, non aiuta.
E lo stesso vale per quel piatto singolo,
la lampada solitaria, e il tempo là fuori che preme il volto
contro queste finestre nuove, la pioggia leggera e il gelo del mattino.
E allora lascerò che sia la prof Parker,
che sta picchiettando con un gesso la lavagna,
e i suoi studenti – alcuni con la mano alzata,
altri trasandati con i loro cappellini portati a rovescio –
a capire quel che sto cercando di dire
su questo posto in cui mi trovo
e di farlo prima che suoni la campanella di mezzogiorno
e sia sguinzagliato il tornado di polpette di carne.
§
NOVEMBRE
Dopo tre giorni di pioggia continua –
più di cinque centimetri hanno detto alla radio –
ho seguito l’esempio dei monaci
che scrivevano alla finestra, col sole sulla pagina.
Per cinque volte questa mattina,
ho caricato la carriola di legna
e l’ho spinta giù dalla collina verso casa,
e più tardi taglierò il giardino morto
con le cesoie e porterò la polpa morbida
in una fossa nel bosco,
ma ora c’è solo
la mia pagina assolata che è come una poesia
che sto ricoprendo con un’altra poesia
e la cagnetta che dorme sulle piastrelle,
con la testa fra le zampe,
e le zampe posteriori aperte come quelle di una rana.
Com’è sciocco rimpiangere l’infanzia,
volere correre di nuovo in tondo nel cortile,
con le braccia allargate,
fingendo di essere un aeroplano.
Che insensatezza temere tutto quel che abbiamo davanti
quando, giorno e notte, le barche,
forti come cavalli nel vento,
vanno e vengono,
portando qui neonati
e trasportando via i corpi dei morti.
§
PUREZZA
Il momento che preferisco per scrivere è il tardo pomeriggio,
giorni lavorativi, in particolare mercoledì.
Questo è quel che faccio:
porto una teiera di tè appena fatto nel mio studio e chiudo la porta.
Mi tolgo i vestiti e li lascio in un mucchio
come se fossi morto sciogliendomi e il mio lascito fosse solo
una camicia bianca, un paio di pantaloni, e una teiera di tè non più caldo.
Poi mi tolgo la pelle e l’appendo a una sedia.
La sfilo dalle ossa come fosse un vestito di seta.
Lo faccio perché quel che scrivo sia puro,
completamente sciacquato dal carnale,
incontaminato dalle preoccupazioni del corpo.
Infine mi tolgo tutti gli organi e li dispongo
su un tavolino accanto alla finestra.
Non voglio sentire i loro ritmi antichi
mentre cerco di battere a macchina il mio intimo battito.
Ora mi siedo alla scrivania, pronto a cominciare.
Sono interamente puro: nient’altro che uno scheletro alla macchina da scrivere.
Dovrei dire che a volte tengo addosso il pene.
Mi è difficile ignorare la tentazione.
Allora sono uno scheletro con pene alla macchina da scrivere.
In queste condizioni scrivo straordinarie poesie d’amore,
che perlopiù sfruttano la connessione fra sesso e morte.
Sono la concentrazione in persona: esisto in un universo
dove non c’è altro che sesso, morte e scrittura.
Dopo un po’ mi tolgo anche il pene.
E allora sono tutto teschio e ossa che battono a macchina nel pomeriggio.
Solo le cose assolutamente essenziali, senza orpelli.
Ora scrivo solo sulla morte, il più classico dei temi
con una lingua leggera come l’aria tra le mie costole.
Dopo mi concedo come premio un giro in auto al tramonto.
Mi rimetto gli organi e mi rinfilo nella carne
e nei vestiti. Esco in retromarcia dal garage
e guido veloce tra i boschi e sulle strade serpeggianti di campagna
e passo accanto a muri di pietra, fattorie e laghetti gelati
tutti in ordine perfetto come parole in un sonetto famoso.
§
ATTRAVERSANDO A PIEDI L’ATLANTICO
Aspetto che la folla del giorno di festa lasci la spiaggia
prima di salire sull’onda.
Ora attraverso l’Atlantico a piedi
e penso alla Spagna,
attento alle balene, ai pennacchi di vapore.
Sento l’acqua che sostiene il mio peso in movimento.
Questa notte dormirò sulla sua superficie cullante.
Ma intanto provo a immaginare come
debba sembrare tutto questo ai pesci là sotto:
il fondo dei miei piedi che appare, scompare.
§
LO SCOUBIDOU
L’altro giorno mentre rimbalzavo lentamente
tra le pareti azzurre di questa stanza,
saltando dalla macchina da scrivere al piano,
dalla libreria a una busta caduta sul pavimento,
mi sono trovato nella sezione S del dizionario
dove i miei occhi sono caduti sulla parola Scoubidou.
Nessun biscotto sgranocchiato da un romanziere francese
avrebbe spedito qualcuno più in fretta nel passato –
un passato dove io stavo seduto a un tavolo in un campeggio
accanto a un profondo lago dell’Adirondack
imparando a intrecciare strisce sottili di plastica
in uno scoubidou, un regalo per mia madre.
Non avevo mai visto nessuno usare uno scoubidou
né indossarne uno, se è a questo che servono,
ma questo non mi trattenne dall’incrociare
filo con filo, e poi di nuovo,
fino a farne uno scoubidou
quadrato, bianco e rosso, per mia madre.
Lei mi diede la vita e il latte dal seno,
io le diedi uno scoubidou.
Si prendeva cura di me, quand’ero a letto ammalato:
mi avvicinava alle labbra cucchiai di medicine,
mi appoggiava alla fronte freddi panni bagnati,
poi mi portava fuori alla luce ariosa;
e mi insegnò a camminare e nuotare,
io in cambio le regalai uno scoubidou.
Ecco qui migliaia di pasti, disse,
ed ecco i vestiti e una buona scuola.
Ed ecco il tuo scoubidou, le risposi,
che ho fatto con l’aiuto dell’istruttore.
Ecco un corpo che respira e un cuore che batte,
gambe, ossa, denti forti,
e due occhi chiari per leggere il mondo, sussurrò.
Ed ecco, dissi, lo scoubidou, che ho fatto in campeggio.
Ed ecco, vorrei dirle ora,
un dono più piccolo – non l’antica verità
che non si può mai ripagare una madre,
ma la triste confessione che quando lei prese
lo scoubidou a due colori dalle mie mani,
ero certo come certo può essere un bambino
che quell’oggetto inutile e senza valore, che avevo intrecciato
per pura noia, bastava per pareggiare i conti.
§
SENZA TEMPO
Di corsa, in questa mattina di un giorno feriale,
do un colpo di clacson mentre passo accanto al cimitero
dove sono sepolti i miei genitori
uno accanto all’altro, sotto una lastra liscia di granito.
Poi, per tutto il giorno, penso a lui che si tira su
e mi lancia un’occhiata
di familiare disapprovazione,
mentre mia madre, con calma, gli dice di rimettersi giù.
§
CONSIGLIO AGLI SCRITTORI
Anche se ti tiene in piedi per tutta la notte,
lava a fondo le pareti e pulisci i pavimenti
dello studio prima di comporre una sillaba.
Pulisci come se il Papa stesse arrivando.
Il candore è nipote dell’ispirazione.
Più pulisci, più brillante
sarà la tua scrittura, e allora non esitare a prendere
per i campi e a sfregare il fondo
dei sassi o spolverare sui rami più alti
della buia foresta i nidi pieni di uova.
Quando ritroverai la strada di casa
e riporrai spugne e spazzole sotto il lavello
vedrai alla luce dell’alba
l’altare immacolato della tua scrivania,
una superficie pulita al centro di un mondo pulito.
Da un vasetto, azzurro splendente, solleva
una matita gialla, la più appuntita del mazzo,
e ricopri pagine di piccole frasi
come lunghe file di fedeli formiche
che ti hanno seguito fin qui dal bosco.
Advice to Writers
Even if it keeps you up all night,
wash down the walls and scrub the floor
of your study before composing a syllable.
Clean the place as if the Pope were on his way.
Spotlessness is the niece of inspiration.
The more you clean, the more brilliant
your writing will be, so do not hesitate to take
to the open fields to scour the undersides
of rocks or swab in the dark forest
upper branches, nests full of eggs.
When you find your way back home
and stow the sponges and brushes under the sink,
you will behold in the light of dawn
the immaculate altar of your desk,
a clean surface in the middle of a clean world.
From a small vase, sparkling blue, lift
a yellow pencil, the sharpest of the bouquet,
and cover pages with tiny sentences
like long rows of devoted ants
that followed you in from the woods.
(da “In vela, in solitaria, attorno alla stanza”)