Marina Ivanovna Cvetaeva – biography
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DAL CICLO <ALL’ACHMATOVA>
Non puoi restare indietro. Io sono il galeotto.
Tu sei la scorta. Un solo destino.
E un comune foglio di via ci è dato
nel vuoto senza contenuto.
Ma la mia indole è tranquilla!
Ma sono chiari i miei occhi!
Lasciami dunque, mia scorta,
fare due passi fino a quel pino!
26 giugno 1916
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ALLA VITA
Non prenderai il mio colorito –
forte come le piene dei fiumi.
Tu sei il cacciatore, ma io non mi darò;
tu sei l’inseguimento, ma io sono la corsa.
Non prenderai la mia anima viva!
Così nel pieno galoppo delle cacce –
si china – e una vena
morde il cavallo
arabo.
25 dicembre 1924
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IL GRIDO DELLE STAZIONI
Grido delle stazioni: resta!
delle sale d’aspetto: oh, compassione!
grido delle stazioni secondarie:
non è l’esclamazione
di Dante:
<lasciate ogni speranza>?
E grido delle locomotive.
Con il ferro squassa
e col rombo di un’onda oceanica.
Agli sportelli delle casse
credevi che commerciassero in spazi?
In mari e terreferme?
Nella più viva delle carni:
carne siamo – non anime!
Labbra – non rose!
Via da noi? – No, su di noi
le ruote trasportano gli amati!
Alla tale e alla tal’altra velocità all’ora.
Sportelli delle casse.
Ossicini d’una passione da giocatori.
Ha ragione quel qualcuno di noi
che disse: l’amore è uno scorticatoio!
<- La vita è rotaie! Non piangere!>
Massicciate – massicciate – massicciate…
(Negli occhi di questi ronzini
i proprietari guardano malvolentieri).
<Senza fosso e senza cucitura
non c’è felicità. – Con questo l’ho comprato,>
quella sarta aveva ragione.
Al che, dopo un silenzio: <Ci sono le traversine.>
1923
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CI SONO AL MONDO I SUPERFLUI, GLI AGGIUNTI
Ci sono al mondo i superflui, gli aggiunti
non registrati nell’ambito visuale.
(Che non figurano nei vostri manuali,
per cui una fossa da scarico è la casa.)
Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni,
quelli che restano muti: letame,
chiodo per il vostro orlo di seta!
Ne ha ribrezzo il fango sotto le ruote!
Ci sono al mondo gli apparenti – invisibili,
(il segno: macula da lebbrosario!)
ci sono al mondo i Giobbe, che Giobbe
invidierebbero se non fosse che:
noi siamo i poeti – e rimiamo con i paria,
ma, straripando dalle rive,
noi contestiamo Dio alle Dee
e la vergine agli Dei!
(trad. di P. A. Zveteremich)
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VERSI A BLOCK.1
Il tuo nome è una rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.
Un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono cinque lettere.
Una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome – ah, non si può! –
il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.
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Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio:
sono gli alberi che vagano sulla terra notturna.
Sono i grappoli che fermentano in vino dorato,
sono le stelle che di casa in casa peregrinano,
sono i fiumi che il cammino cominciano a ritroso!
E io ho voglia di venire da te sul petto – a dormire.
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L’amore
è lama? È fuoco?
Più quietamente – perché tanta enfasi?
È dolore che è conosciuto come
gli occhi conoscono il palmo della mano
come le labbra sanno
del proprio figlio il nome.
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La spensieratezza è un caro peccato,
caro compagno di strada e nemico mio caro!
Tu negli occhi m’hai spruzzato il riso
e la mazurca mi hai spruzzato nelle vene.
Poiché mi hai insegnato a non serbare l’anello,
con chiunque la vita mi sposasse.
A cominciare alla ventura – dalla fine,
e a finire – ancor prima di cominciare.
A essere come uno stelo, ed essere come l’acciaio.
Nella vita, in cui così poco possiamo,
a curare la tristezza con la cioccolata
e a ridere in faccia ai passanti.
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VERSI PER LA CECOSLOVACCHIA. MARZO.8
O lacrime agli occhi!
Pianto d’ira e d’amore!
O Boemia in lacrime!
Spagna nel sangue!
O nera montagna
che ha tolto ogni luce!
È tempo – è tempo – è tempo
di ridare il biglietto al Creatore.
Mi rifiuto – di esistere.
Nel bailamme dei non-uomini
mi rifiuto – di vivere.
Coi lupi nelle piazze
mi rifiuto – di ululare.
Con gli squali delle distese
mi rifiuto di nuotare –
giù – nella corrente delle schiene.
Non ho bisogno di cavità
auricolari, né di occhi che vedono.
Al tuo mondo dissennato
una sola risposta – il rifiuto.
∼
Tu cercati amiche fiduciose,
che non giustificano il prodigio col numero.
Io so che Venere è impresa di mani;
artigiano – io conosco il mestiere!
Dagli alti e solenni mutismi
sino a calpestare l’anima:
tutta la scala divina – dal:
io respiro – sino a: non respirare!
∼
Alla mia povera fragilità
guardi senza sprecar parole.
Tu sei di pietra, ma io canto.
Tu sei un monumento, ma io volo.
Io so che il più tenero maggio
all’occhio dell’Eternità è nulla.
Ma io sono un uccello e non incolparmi
se una facile legge m’è imposta.
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Ti ho versato nel bicchiere
una manciata di capelli bruciati,
perché tu non mangi, non canti,
non beva, non dorma.
Perché la giovinezza non ti sia gioia,
perché lo zucchero non ti sia dolce.
Perché tu non te la intenda nel buio della notte
con la giovane moglie.
Come i capelli tuoi d’oro
sono divenuti cenere grigia,
così gli anni miei giovani
diventeranno bianco inverno.
Perché tu diventi cieco-sordo,
perché ti dissecchi come il muschio,
perché ti dilegui come un sospiro.
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Con me non bisogna parlare,
ecco le labbra: date da bere.
Ecco i miei capelli: carezzali.
Ecco le mani: so possono baciare.
Meglio però, fatemi dormire.
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Se un’anima è nata con le ali,
cos’è per lei il palazzo e cos’è la capanna!
Cos’è Gengis Khan per lei – e cos’è – l’Orda!
Due nemici ho io a questo mondo,
due gemelli – indissolubilmente fusi:
la fame degli affamati – e la sazietà dei sazi.
∼
Ecco ancora una finestra,
dove ancora non dormono.
Forse – bevono vino,
forse – siedono così.
O semplicemente – le due
mani non staccano.
In ogni casa, amico,
c’è una finestra così.
Non candele o lampade hanno acceso il buio:
ma gli occhi insonni!
Grido di distacchi e d’incontri:
tu, finestra nella notte!
Forse, centinaia di candele,
forse, tre candele…
Non c’è, non c’è per la mia
mente quiete.
Anche nella mia casa
è entrata una cosa come questa.
Prega, amico, per la casa insonne,
per la finestra con la luce.
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TENTATIVO DI GELOSIA
Come state con quell’altra –
Più semplice, vero? – un colpo di remo!
Lungo la linea della costa
se n’è andato presto il ricordo
di me, isola flottante?
(nel cielo – non sulle acque!)
Anime, anime! Sorelle dovete essere,
non amanti – voi!
Come state con una donna
semplice? Senza divinità?
Deposta dal trono la sovrana
(e da esso disceso),
come state – vi date da fare –
vi raggrinzite? Vi alzate – come?
Con il dazio dell’immortale mediocrità
come ve la cavate, poveretto?
“Spasimi e intermittenze,
basta! Mi prenderò una casa.”
Come state con una qualsiasi –
voi, eletto mio?
V’è più connaturato e commestibile
il cibo? – non nascondere il successo!
Come state con un simulacro –
voi che avete calpestato il Sinai?
Come state con un’estranea,
una “terrestre”? Per la costola – v’è cara?
La vergogna con le briglia di Zeus
bon vi frusta la fronte?
Come state – come vi sentite –
Cosa potete? Cantare – come?
Con la piaga dell’immortale coscienza
come ve la cavate, poveretto?
Come state con un articolo
da mercato? La servitù è dura?
Dopo i marmi di Carrara
come state con la polvere
di gesso? (Dio scolpito
in una gleba – e frantumato!
Come state con una centomillesima –
voi, che avete conosciuto Lilith?!
Dell’ultima novità di mercato
siete sazio? Stanco delle maghe,
come state con una donna
terrestre, senza i sesti
sensi?
Via, per la testa: siete felice?
No? Nella frana senza profondità –
come state, mio caro? E’ più pesante?
E’ forse così – come per me con un altro?
(trad. di P. A. Zveteremich)
∼
Come spostando pietre
geme ogni giuntura! Riconosco
l’amore dal dolore
lungo tutto il corpo.
Come un immenso campo aperto
alle bufere. Riconosco
l’amore dal lontano
di chi mi è accanto.
Come se mi avessero scavato
dentro fino al midollo. Riconosco
l’amore dal pianto delle vene
lungo tutto il corpo.
Vandalo in un’aureola
di vento! Riconosco
l’amore dallo strappo
delle più fedeli corde
vocali: ruggine, crudo sale
nella strettoia della gola.
Riconosco l’amore dal boato
– dal trillo beato –
lungo tutto il corpo!
∼
Ai miei versi scritti così presto
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi.
Irrompenti come piccoli démoni
in un sacrario di sogno e d’incenso,
ai miei versi di di giovinezza e di morte,
versi che nessuno ha mai letto!
Sparsi fra la polvere dei magazzini,
dove nessuno li prese o li prenderà,
i miei versi, come i vini pregiati,
avranno la loro ora.
∼
Io sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
lo crescerò e lo ridarò centuplicato.
Io sono la campagna, la terra nera.
Tu per me sei il raggio e l’umida spiaggia.
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
sono terra nera e carta bianca”.
∼
Come pupilla, nera; come pupilla, succhiante
la luce – ti amo, perspicace notte.
Dammi voce per cantarti, o progenitrice
delle canzoni, nella cui mano è la briglia dei quattro venti.
Chiamando te, te glorificando, io sono soltanto
una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano.
Notte! Ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane.
Inceneriscimi, nero sole – notte!
9 agosto 1916
∼
Oggi sono un ospite celeste
nel tuo paese.
Io ho visto l’insonnia del bosco
e il sonno dei campi.
Chissà dove nella notte, zoccoli
scalzano l’erba.
Ha tratto un pesante sospiro
una vacca nella stalla sonnolenta.
Racconterò a te con tristezza,
con tutta tenerezza,
dell’oca guardiana
e delle oche che dormivano.
Le mani affondavano nel pelame canino.
Il cane era – canuto.
Poi, verso le sei,
cominciò l’alba.
∼
AMORE
Fuoco? Uragano? Terremoto?
Andiamoci più piano…
Dolore noto come agli occhi il palmo
della mano e alle labbra
il nome del proprio bambino…
∼
PRIMAVERA
Primavera… sopore… dormiremo.
Separati – eppure: ogni distanza
annulla il sonno… E forse
… in sogno ci si potrà vedere.
Onniveggente, il sogno
sa sempre chi riunire.
A chi confiderò il mio affanno?
A chi dirò la mia tristezza
disumana – creatura
senza padre, disperata
di finire… Ah, la pena
di chi piange da solo!
Su quanto come sabbia presto
scivolerà via dalla memoria. Di chi sa:
sono occupati nella vita i posti
e i cuori – presi a nolo: impiegati
senza ferie. Senza fine. Morti
per vivere – in vita – senza amore. Sepolti vivi
dal mattino – prima luce! – nell’archivio,
nell’Eliso degli storpi!
Su noi due – muti, mansueti: più dell’erba,
dell’acqua che ristagna. Sulla rovina
acerba che ci schianta. Sul rimprovero
del vento: schia-vi, schia-vi…
∼
IL POETA
Il poeta – da lontano conduce il discorso.
Il poeta – lontano conduce il discorso.
Per pianeti, per segni…per borri
di indirette parabole…Fra il sì e il no
lui – persino volando giù dal campanile –
rimedia un appiglio…Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti. I dispersi anelli
della casualità, ecco il suo legame! Con la fronte in alto
disperatevi! Le eclissi dei poeti
non sono previste dal calendario.
Lui è quello che imbroglia le carte,
che inganna sul peso e sul conto;
lui è quello che domanda dal banco
chi demolisce Kant,
chi c’è nella bara di pietra della Pastiglia –
com’è l’albero nella sua bellezza…
quello le cui tracce si dileguano sempre,
quel treno a cui tutti
arrivano tardi…
Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti: bruciando e non scaldando,
strappando e non coltivando – esplosione e scasso –
il tuo sentiero crinieruto, storto,
non è previsto dal calendario!
(trad. di P. A. Zveteremich)
∼
UN BIANCO SOLE
Un bianco sole e basse, basse nubi,
lungo gli orti – dietro il muro bianco – un cimitero.
E sulla sabbia file di spauracchi di paglia
sotto le traverse a statura d’uomo.
E, penzolandomi oltre i paletti dello steccato,
vedo: strade, alberi, soldati sbandati.
Una vecchia contadina, cosparso di sale grosso
mastica e mastica un tozzo di pane nero…
Come hanno potuto incollerirti queste nere capanne,
Signore! e perché a tanti mitragliare il petto?
Passa un treno e ulula, e si mettono a ululare i soldati,
e leva polvere, leva polvere la strada che indietreggia…
– No, morire! Meglio non essere mai nati,
che questo lamentoso, penoso, carcerario ululato
per le belle dalle nere ciglia. – Ah, e pure cantano
adesso i soldati! Oh, Signore, Dio mio!
3 luglio 1916
∼
IO TI RACCONTERò – DEL GRANDE INGANNO
Io ti racconterò – del grande inganno:
io ti racconterò come cala la nebbia
sui giovani alberi, sulle vecchie ceppaie:
io ti racconterò come si spengono le luci
nelle basse case, come – straniero di egizie contrade
soffia lo zingaro nel sottile zufolo sotto un albero.
Io ti racconterò – della grande menzogna:
io ti racconterò come si stringe il coltello
nella stretta mano, come si arruffano al vento dei secoli
i riccioli – ai giovani, e le barbe ai vecchi.
Mormorio di secoli.
Scalpitio di zoccoli.
(trad. di P. A. Zveteremich)
∼
DOPO UNA NOTTE INSONNE SI FA DEBOLE IL CORPO
Dopo una notte insonne si fa debole il corpo,
gentile diventa e non suo, – di nessuno.
Nelle vene lente di nuovo gemono frecce –
e sorrisi alla gente, come un serafino.
Dopo una notte insonne si fan deboli le braccia
e profondamente indifferente e il nemico e l’amico.
L’arcobaleno intero – in ogni suono casuale,
e nel ghiaccio profumo di Firenze ad un tratto.
Dolcemente lucenti si fanno le labbra, e l’ombra più dorata
intorno agli occhi incavati. E’ la notte che ha acceso
questo lucentissimo viso, – e per la notte scura
in noi scuri si fanno soltanto – gli occhi.
(trad. di G. Ansaldo)
∼
SONO FELICE DI VIVERE IN MODO SEMPLICE ED ESEMPLARE
Sono felice di vivere in modo semplice ed esemplare –
come il sole, come il pendolo, come il calendario.
D’essere un’anacoreta laica di snella figura,
savissima – come qualsiasi creatura di Dio.
Di sapere: lo Spirito è mio alleato, lo Spirito è mia guida!
D’entrare senza annunciarmi, come un raggio e come uno sguardo.
Di vivere così come scrivo: in modo esemplare e succinto –
come Dio comanda e come gli amici non prescrivono.
(trad. di P. A. Zveteremich)
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UN GIORNO, MERAVIGLIOSA CREATURA
Un giorno, meravigliosa creatura,
io per te diventerò un ricordo,
là, nella tua memoria occhi-turchina
sperduto – così lontano lontano.
Tu dimenticherai il mio profilo col naso a gobba,
e la fronte nell’apoteosi della sigaretta,
e il mio eterno riso, che tutti intriga,
e il centinaio – sulla mia mano operaia –
di anelli d’argento – la soffitta-cabina,
la divina sedizione delle mie carte…
e come, in un anno tremendo, innalzate dalla sventura,
tu piccola eri ed io – giovane.
(trad. di P. A. Zveteremich)
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IL TRENO DELLA VITA
Se non baionetta – allora zanna, mucchio di neve, raffica di vento –
verso l’immortalità ogni ora c’è un treno!
Arrivo e so una cosa soltanto: stazione,
non vale la pena di disfare i bagagli.
Verso tutti, verso tutto – con l’indifferenza degli occhi
per i quali la fine è l’immemorabilità.
Oh, come è naturale salire in terza classe
via dall’asfissia delle stanze delle signore!
Via dalle costolette riscaldate, dalle guance
raffreddate…non si può ancora più in là,
anima? Magari nello scolatoio di un lampione –
via da questa fatale falsità:
dei bigodini, dei pannolini,
dei ferri roventi per i ricci,
dei capelli bruciacchiati,
delle cuffie, delle incerate,
delle ac-que-di-co-lo-nia,
delle familiari felicità
da cucito (Kleimwenig!…),
“E’ stata presa la caffettiera?…“
di roba ad asciugare, cuscini, matrone, bambinaie,
asfissia delle bonnes, dei bagni.
Non voglio in questo scatolone di corpi femminili
aspettare l’ora della morte!
Voglio che il treno beva e canti:
la morte è pure lei al di fuori della classe!
Via allo sbaraglio, verso lo stordimento, la fisarmonica, la fatica, l’inutilità!
“Come s’appiccicano questi anticristi?”
così che qualche randagio: “All’altro mondo…”
senza aspettare, dico: “Meglio!”
Piattaforma. – e traversine. – e l’ultimo arbusto
in mano. – lo lascio – e’ tardi
Per tenersi su. – traversine. – di quante labbra
sono stanca. – guardo le stelle.
Così, attraverso l’arcobaleno di tutti i pianeti
scomparsi – qualcuno li ha contati? –
guardo e vedo una cosa sola: la fine.
Non vale la pena di pentirsi.
(trad. di P. A. Zveteremich)
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IL TAVOLO
Fedele mio tavolo di scrittura!
Grazie per essere andato
con me per tutte le strade.
Per avermi difeso – come una cicatrice.
Mio mulo da soma e da scrittura!
Grazie per non aver piegato le zampe
sotto il carico, il fardello delle lacrime –
grazie per aver portato e portato.
Severissimo specchio di giustizia!
Grazie per questo, che ti sei messo
(alle tentazioni del mondo argine)
di traverso a tutte le gioie,
a tutte le bassezze – diniego!
Contrappeso di quercia
al leone dell’odio, all’elefante
dell’offesa – a tutto, a tutto.
Mio legno da vivo-mortale!
Grazie per questo, che sei venuto crescendo
con me, a misura dei lavori
da tavolino – ti sei ingrandito, dilatato,
a tal punto esteso – per larghezze
tali, che, spalancata la bocca,
afferratami al bordo del tavolo…
mi allagavo come una spiaggia!
Inchiodatami a te con la prima luce –
grazie per questo, che dietro di me
ti scatenavi! Su tutti i percorsi
mi raggiungevi, come uno scià –
La fuggitiva.
-“Indietro, alla sedia!”
Grazie per questo, che tutelavi
e costringevi. Ai non eterni beni
mi strappavi, come un mago –
la sonnambula.
Tavolo mio che le cicatrici
delle battaglie hai allineato in colonne
brucianti: purpureo delle vene!
Delle mie imprese colonna!
Colonna dello Stilita, otturatore delle labbra –
tu per me eri – trono, spazio –
colui per me sei stato che per il mare di folle
ebraiche fu l’ardente pilastro!
Sia dunque tu benedetto –
dalla fronte, dal gomito, dalla curva dei ginocchi
sperimentato – orlo del tavolo
come una sega penetrato nel petto!
(trad. di P. A. Zveteremich)
∼
NOSTALGIA DELLA PATRIA! DA TEMPO
Nostalgia della patria! Da tempo
smascherata molestia!
Per me assolutamente fa lo stesso
dove – assolutamente sola
trovarmi, per quali sassi a casa
trascinarmi con la borsa della spesa,
in una casa che nemmeno sa ch’è – mia,
come un ospedale o una caserma.
Per me fa lo stesso fra quali
persone rizzare il pelo come un leone
prigioniero, da quale ambiente
essere espulsa – immancabilmente –
dentro di me, nel privato dei sentimenti.
Orso della Kamciatka senza banchisa,
dove non acclimatarmi (né mi sforzo!);
dove umiliarmi – per me fa lo stesso.
Non mi farò illudere nemmeno dalla lingua
natia, dal suo latteo appello.
Per me è indifferente in quale lingua
non essere capita dal primo incontrato!
(da un lettore di tonnellate di giornali
divoratore, mungitore di dicerie…)
del ventesimo secolo – è lui,
ma io arrivo ad ogni secolo!
In catalessi, come una trave
superstite di un viale,
per me tutti sono uguali, e tutto – eguale,
e, può darsi, di tutto più indifferente
quel che era nativo – più di tutto.
Da me tutti i segni, tutti i marchi,
tutte le date – sono scomparsi:
anima nata – in un qualsiasi dove.
Così il mio paese non mi ha avuta cara,
che anche il più perspicace sbirro,
lungo tutta l’anima – tutta per traverso! –
non rintraccerà neo di nascita!
Ogni casa mi è straniera, ogni tempio vuoto,
e fa lo stesso e tutto è uguale.
Ma se lungo una strada un arbusto
appare, specialmente un sorbo…
(trad. di P.A. Zveteremich)
∼
I LETTORI DI GIORNALI
Striscia il serpe sotterraneo,
striscia, trasporta gente.
E ciascuno con il suo
giornale (con il suo
eczema!) tic da ruminante,
cancro osseo dei giornali.
Masticatori di mastici,
lettori di giornali.
Chi, il lettore? Un vecchio? Un atleta?
Un soldato? Né lineamenti, né visi,
né età. Scheletro – poiché non ha
viso: un foglio di giornale!
Di cui tutta Parigi
dalla fronte all’ombelico è vestita.
Lascia stare, ragazza!
Metterai al mondo
un lettore di giornali.
Dondolando – “vive con la sorella”
ruttano – “ha ucciso il padre!”
Si dondolano, il nulla
si pompano dentro.
Che sono per questi signori
il tramonto oppure l’alba?
Divoratori di vuoto,
lettori di giornali!
Di giornali, leggi: di calunnie;
di giornali, leggi: di sprechi.
Ogni colonna, una diffamazione
ogni capoverso: disgusto…
Oh, con che cosa vi presenterete
al Giudizio Universale, all’altro mondo?!
Arraffatori di minuti,
lettori di giornali!
“E’ partito, sperduto, sparito!”
E’ antica la paura delle madri.
Madre! Dei Gutemberg la presse
è più terribile della polvere di Schwarz!
Davvero meglio al cimitero
che nel marcio lazzaretto
dei grattatori di scabbie,
lettori di giornali!
Chi i nostri figli
fa marcire nel fiore degli anni?
I miscelatori di sangue,
sgi scrittori di giornali!
Ecco, amici – e anche
più forte che in queste righe! –
che cosa io penso quando
con il manoscritto in mano
sto davanti alla faccia
(posto – più vuoto non c’è)
sicchè dunque alla non faccia
di un redattore di giorna-
listica immondizia.
(trad. di P. A. Zveteremic)
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