"Sono così tante le cose da sapere, e una vita non sarà sufficiente, così, parlando di Sylvia, non dirò nulla di nuovo, tuttavia, dirò che è impossibile rimanere indifferenti, dinnanzi Sylvia Plath.
Non già la poetessa, bensì la persona, imprescindibile legame tra vita e opere, tra essere e scrivere.
Nulla di ciò che dirò può anche solo lontanamente avere forma d'interezza, laddove tento di preservare un sentimento, tanto più quando quel sentimento è amore. Sylvia, lo abbraccia a tutto tondo, culminando nell'impossibilità di perseguirlo in vita, con un suicidio, si badi bene, teatrale, testimone di passione per l'arte. Lei stessa ce lo dice: "...morire è un'arte..." Nessuno può dire d'aver amato, senza aver contemplato fino alle viscere il dolore...fuggite a gambe levate quando sentirete frasi tipo: "pensa positivo", "l'amore non è dolore"...non perché non contengano una qualche verità, ma per la riduzione e la banalizzazione del tutto, che esprimono. Non esiste arte dove non esiste vita, non esiste vita dove non esista dolore, non esiste dolore dove non esista amore, e viceversa. La passione, estrema, è il motore nella vita di Sylvia, molto più di quanto lo sia nella vita del "mediocre pensatore positivo". Tuttavia, il suicidio è atto culmine d'egocentrismo, dove la passione non può proiettarsi all'esterno, orfana di quell'attenzione che ci è dovuta alla nascita e nei primi anni di vita. Il vuoto della mancanza è destinato a non riempirsi mai, e da un vuoto non può nascere ed essere donato alcun pieno. La depressione stessa è implosione dell'essere, nella sua specificità emotiva ed emozionale.
Leggere Sylvia è varcare il recinto di una città abbandonata dopo i bombardamenti, rovistando tra le macerie, trovando qua una scarpa, là un pettine, più in là un fermaglio colorato, una sciarpa impolverata...dettagli, da cui ricostruire quell'assenza, che artiglia alla gola."
Angela Fragiacomo
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IO SONO VERTICALE
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
I AM VERTICAL
But I would rather be horizontal. I am not a tree with my root in the soil Sucking up minerals and motherly love So that each March I may gleam into leaf, Nor am I the beauty of a garden bed Attracting my share of Ahs and spectacularly painted, Unknowing I must soon unpetal. Compared with me, a tree is immortal And a flower-head not tall, but more startling, And I want the one’s longevity and the other’s daring.
Tonight, in the infinitesimallight of the stars, The trees and the flowers have been strewing their cool odors. I walk among them, but none of them are noticing. Sometimes I think that when I am sleeping I must most perfectly resemble them– Thoughts gone dim. It is more natural to me, lying down. Then the sky and I are in open conversation, And I shall be useful when I lie down finally: Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.
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I TULIPANI
I tulipani sono troppo eccitabili, e’ inverno qui,
guarda quanto ogni cosa sia bianca, quieta e innevata.
Imparo la pace, mentre si posa quieta a me vicina
come la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i vestiti alle infermiere
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Hanno appoggiato la mia testa tra cuscino e bordo del lenzuolo
come un occhio fra palpebre bianche che non si chiuderanno.
Stupida pupilla, di tutto deve fare incetta.
Le infermiere passano e ripassano, non disturbano,
passano come i gabbiani verso terra nelle loro cuffie bianche,
facendo cose con le mani, uguali l’una all’altra,
cosi’ che e’ impossibile dire quante siano.
Il mio corpo e’ un sasso per loro, vi si apprestano come l’acqua
ai sassi sui quali deve scorrere, levigandoli garbata.
Mi danno il torpore con i loro aghi luccicanti, mi danno il sonno.
Adesso ho perduto me stessa sono stanca di bagagli –
la mia borsa di pelle come un nero portapillole,
mio marito e il bambino sorridono nella foto di famiglia;
i loro sorrisi mi agganciano la pelle, piccoli ami sorridenti.
Ho gettato cose in mare, io cargo di trent’anni
tenacemente attaccata al mio nome e indirizzo.
Hanno strofinato via tutti i miei affetti.
Impaurita e denudata sulla plastica verde della barella
ho guardato la mia teiera, il como’ della biancheria, i miei libri
affondare lontani, e l’acqua arrivarmi sopra la testa.
Sono una suora adesso, mai stata cosi’ pura.
Non volevo fiori, volevo soltanto
sdraiarmi a palme in su completamente vuota.
Come si sia liberi, non avete idea quanto liberi –
la pace e’ cosi’ grande che abbaglia,
non chiede nulla, un’etichetta col nome, qualche bazzecola.
Con questa, alla fine, chiudono i morti; li immagino
masticarsela come un’ostia da Comunione.
I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi feriscono.
Anche attraverso la carta da regalo li sentivo respirare
piano, attraverso la bianca fasciatura, come un bimbo mostruoso.
Rossastri parlano alla mia ferita, le rispondono.
Sono traditori: sembrano ondeggiare, anche se mi tirano giù,
scompigliandomi con le loro lingue inattese e il colore,
una dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.
Prima nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata.
I tulipani si voltano verso di me, e la finestra dietro
dove quotidianamente la luce si allarga e si assottiglia,
io mi vedo, piatta, ridicola, ombra di carta ritagliata
fra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani consumano il mio ossigeno.
Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
pulsava, respiro dopo respiro, senza scompiglio.
Poi i tulipani l’hanno riempita di un gran rumore.
Ora l’aria spinge e gli vortica attorno come un fiume
spinge e vortica attorno a una macchina rosso-ruggine affondata.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
giocando e riposando senza impegnarsi.
Anche i muri sembrano riscaldarsi tra loro.
I tulipani dovrebbero stare dietro le sbarre come bestie pericolose;
si aprono come la bocca di un grosso felino africano,
ed io mi accorgo del mio cuore: apre e chiude
la sua ampolla di rossi boccioli per vero amor mio.
L’acqua che assaggio e’ calda e salata come il mare,
e viene da un paese lontano come la salute.
TULIPS
The tulips are too excitable, it is winter here. Look how white everything is, how quiet, how snowed-in I am learning peacefulness, lying by myself quietly As the light lies on these white walls, this bed, these hands. I am nobody; I have nothing to do with explosions. I have given my name and my day-clothes up to the nurses And my history to the anaesthetist and my body to surgeons.
They have propped my head between the pillow and the sheet-cuff Like an eye between two white lids that will not shut. Stupid pupil, it has to take everything in. The nurses pass and pass, they are no trouble, They pass the way gulls pass inland in their white caps, Doing things with their hands, one just the same as another, So it is impossible to tell how many there are.
My body is a pebble to them, they tend it as water Tends to the pebbles it must run over, smoothing them gently. They bring me numbness in their bright needles, they bring me sleep. Now I have lost myself I am sick of baggage —- My patent leather overnight case like a black pillbox, My husband and child smiling out of the family photo; Their smiles catch onto my skin, little smiling hooks.
I have let things slip, a thirty-year-old cargo boat Stubbornly hanging on to my name and address. They have swabbed me clear of my loving associations. Scared and bare on the green plastic-pillowed trolley I watched my teaset, my bureaus of linen, my books Sink out of sight, and the water went over my head. I am a nun now, I have never been so pure.
I didn’t want any flowers, I only wanted To lie with my hands turned up and be utterly empty. How free it is, you have no idea how free —- The peacefulness is so big it dazes you, And it asks nothing, a name tag, a few trinkets. It is what the dead close on, finally; I imagine them Shutting their mouths on it, like a Communion tablet.
The tulips are too red in the first place, they hurt me. Even through the gift paper I could hear them breathe Lightly, through their white swaddlings, like an awful baby. Their redness talks to my wound, it corresponds. They are subtle: they seem to float, though they weigh me down, Upsetting me with their sudden tongues and their colour, A dozen red lead sinkers round my neck.
Nobody watched me before, now I am watched. The tulips turn to me, and the window behind me Where once a day the light slowly widens and slowly thins, And I see myself, flat, ridiculous, a cut-paper shadow Between the eye of the sun and the eyes of the tulips, And I hve no face, I have wanted to efface myself. The vivid tulips eat my oxygen.
Before they came the air was calm enough, Coming and going, breath by breath, without any fuss. Then the tulips filled it up like a loud noise. Now the air snags and eddies round them the way a river Snags and eddies round a sunken rust-red engine. They concentrate my attention, that was happy Playing and resting without committing itself.
The walls, also, seem to be warming themselves. The tulips should be behind bars like dangerous animals; They are opening like the mouth of some great African cat, And I am aware of my heart: it opens and closes Its bowl of red blooms out of sheer love of me. The water I taste is warm and salt, like the sea, And comes from a country far away as health.
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LETTERE D’AMORE
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-
e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno-
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive,
Io guardavo e non capivo.
Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono.
LOVE LETTER
Not easy to state the change you made. If I’m alive now, then I was dead, Though, like a stone, unbothered by it, Staying put according to habit. You didn’t just tow me an inch, no- Nor leave me to set my small bald eye Skyward again, without hope, of course, Of apprehending blueness, or stars.
That wasn’t it. I slept, say: a snake Masked among black rocks as a black rock In the white hiatus of winter- Like my neighbors, taking no pleasure In the million perfectly-chiseled Cheeks alighting each moment to melt My cheeks of basalt. They turned to tears, Angels weeping over dull natures,
But didn’t convince me. Those tears froze. Each dead head had a visor of ice. And I slept on like a bent finger. The first thing I was was sheer air And the locked drops rising in dew Limpid as spirits. Many stones lay Dense and expressionless round about. I didn’t know what to make of it. I shone, mice-scaled, and unfolded To pour myself out like a fluid Among bird feet and the stems of plants.
I wasn’t fooled. I knew you at once. Tree and stone glittered, without shadows. My finger-length grew lucent as glass. I started to bud like a March twig: An arm and a leg, and arm, a leg. From stone to cloud, so I ascended. Now I resemble a sort of god Floating through the air in my soul-shift Pure as a pane of ice. It’s a gift.
℘
LIMITE
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
EDGE
The woman is perfected Her dead
Body wears the smile of accomplishment, The illusion of a Greek necessity
Flows in the scrolls of her toga, Her bare
Feet seem to be saying: We have come so far, it is over.
Each dead child coiled, a white serpent, One at each little
Pitcher of milk, now empty She has folded
Them back into her body as petals Of a rose close when the garden
Stiffens and odors bleed From the sweet, deep throats of the night flower.
The moon has nothing to be sad about, Staring from her hood of bone.
She is used to this sort of thing. Her blacks crackle and drag.
℘
PECORE NELLA NEBBIA
Le colline digradano nel bianco.
Persone o stelle
mi guardano con tristezza, le deludo.
Il treno lascia dietro una linea di fiato.
Oh lento
cavallo color della ruggine,
zoccoli, dolorose campane.
E’ tutta la mattina che
la mattina sta annerendo,
un fiore lasciato fuori.
Le mie ossa racchiudono un’immobilità, i campi
lontani mi sciolgono il cuore..
Minacciano
di lasciarmi entrare in un cielo
senza stelle né padre, un’ acqua scura.
2 dicembre 1962, 28 gennaio 1963
℘
LADY LAZARUS
L’ho rifatto
Un anno ogni dieci
Ci riesco
Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Il mio Piede destro,
Un fermacarte
La mia faccia un anonimo, pefetto
Lino ebraico.
Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
E io sarò una donna che sorride.
No ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante noccioline
Si accalca per vedere
Che mi sbendano mano e piede
Il grande spogliarello.
Signori e signore, ecco qui
Queste sono le mie mani,
I miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
É un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
È facile abbastanza da farlo in una cella.
È facile abbastanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale
Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale animale
Urlo divertito:
“Miracolo!”
È questo che mi ammazza.
C’è un prezzo da pagare
Per spiare le mie cicatrici, c’è un prezzo da pagare
per auscultare il mio cuore
Eh sì, batte.
E c’è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po’ del mio sangue
O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creature d’oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.
Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento
℘
CANTO NEL MATTINO
Come un grasso orologio d’oro l’amore ti mise in moto.
La levatrice schiaffeggiò le piante dei tuoi piedi, e il tuo grido pelato
prese il posto tra gli elementi.Le nostre voci echeggiano, magnificando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo percorso da correnti d’aria, la tua nudità
adombra la nostra sicurezza. Ti attorniamo vacui come mura.Non sono più madre tua io
della nuvola che distilla uno specchio per riflettervi la sua propria lenta
cancellatura per mano del vento.Tutta la notte il tuo fiato-di-falena
ondeggia tra le rosee lisce rose. Veglio per ascoltare:
un mare lontano muove nel mio orecchio.Uno strillo, e dal letto incespico, pesante come una vacca e floreale
nella mia vestaglia vittoriana.
La tua bocca s’apre nitida come quella d’un gatto. Il riquadro della finestra
s’imbianca e ringoia le sue tetre stelle. E ora tu provi
un tuo trillo di note;
le chiare vocali sorgono come palloni d’aria.
19 febbraio 1961
℘
ARIEL
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
℘
PAPAVERI IN OTTOBRE
Nemmeno le nubi assolate possono fare stamane
gonne così. Né la donna in ambulanza,
il cui rosso cuore sboccia prodigioso dal mantello-
Dono, dono d’amore
del tutto non sollecitato
da un cielo
che in un pallore di fiamma accende i suoi
ossidi di carbonio, da occhi
sbigottiti e sbarrati sotto cappelli a bombetta.
O Dio, chi sono mai
io da far spalancare in un grido queste tarde bocche
in una foresta di gelo, in un’alba di fiordalisi.
℘
SPECCHIO
Sono esatto e d’argento, privo di preconcetti.
qualunque cosa io veda subito l’inghiottisco
tale e quale senza ombre di amore o disgusto.
Io non sono crudele, ma soltanto veritiero –
quadrangolare occhio di un piccolo iddio.
Il più del tempo rifletto
sulla parete di fronte.
E’ rosa, macchiettata. Ormai da tanto tempo la guardo che la sento
un pezzo del mio cuore. Ma lei c’è e non c’è.
Visi e oscurità continuamente si separano.
Adesso io sono un lago. Su me si china una donna
cercando in me di scoprire quella che lei è realmente.
Poi a quelle bugiarde si volta: alle candele o alla luna.
Io vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Me ne ripaga con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Anche lei viene e va.
Ogni mattina il suo viso si alterna all’oscurità.
In me lei ha annegato una ragazza, da me gli sorge incontro
giorno dopo giorno una vecchia, pesce mostruoso.
℘
LA RIVALE
Se sorridesse, la luna somiglierebbe a te.
Tu fai lo stesso effetto:
Di un qualcosa di bello ma che annichilisce.
Tutti e due siete dei grandi scroccatori.
La sua bocca a O si accora sul mondo; la tua
Non fa una piega, tu pietrifichi ogni cosa.
Guardo, c’è un mausoleo; eccoti qui che picchietti
Il marmo del tavolino, cerchi le sigarette,
Sprezzante come una donna, ma non così nervoso,
e muori dalla voglia di dire impertinenze.
Anche la luna i suoi sudditi umilia,
Ma di giorno è ridicola.
I tuoi malumori, d’altra parte,
Arrivano per posta amorosamente regolari,
Bianchi e vani, espansivi come il gas.
Non c’è un giorno al riparo da notizie di te,
Magari a spasso in Africa, ma pensando a me.
℘
UN REGALO DI COMPLEANNO
Cosa si nasconde dietro questo velo? E’ bello? E’ brutto?
Luccica, ha seni, bordi?
Sono certa sia unico, sono certa sia quello che voglio.
Mentre, tranquilla, mi do da fare in cucina, lo sento che mi guarda.
Lo sento che medita:
“È questa colei alla quale devo apparire,
È, dunque, costei l’eletta, la donna con nere occhiaie e cicatrici
Che calcola le dosi, ritagli gli eccessi,
Aderendo alle regole della ricetta?
È costei la protagonista dell’Annunciazione?
Dio, che buffa!”
Ma scintilla, non smette, e credo che proprio me voglia.
Non mi dispiacerebbe fosse un osso o un bottone di madreperla.
Né m’aspettavo un regalo, quest’anno.
Dopo tutto, sono viva solo per un accidente.
Sarei stata felice di riuscire a suicidarmi, quel giorno.
Ora ci sono questi veli, che brillano come tende.
Il satin diafano di una finestra di gennaio
Bianco come un velo di culla dal respiro mortale. Oh, avorio!
Deve essere una zanna, una colonna fantasma.
Non vedi che non m’importa quel che sia?
Non puoi darmela?
Non vergognarti – non fa nulla se è piccola.
Non essere avaro. Sono pronta per cose ben più enormi.
Sediamoci uno di fronte all’altro per ammirarne il luccichio.
Quanta brillantezza in queste sfaccettature.
Consumiamole dinanzi la nostra ultima cena in un piatto d’ospedale.
So perché non me la consegni.
Hai paura
Che il mondo esploda e con esso la tua testa
Di bronzo borchiata come uno scudo antico,
Meraviglia per i tuoi pronipoti.
Non temere, non accadrà.
La prenderò e mi metterò quieta da parte.
Non sentirai nessun fruscio, mente la scarto.
Nessun fiocco fa sciogliere, nessun grido d’esultanza.
Ma tu non mi credi discreta a tal punto.
Se solo sapessi quanto questi veli uccidono i miei giorni.
Tu li ritieni solo trasparenze, pura aria.
Ma, Dio mio, le nuvole sono bambagia.
Eserciti d’ossido di carbonio.
E io inalo pian piano dolcemente,
Riempiendomi le vene dell’invisibile, con i milioni
Di probabili moti che eliminano gli anni dalla mia futura vita.
Sei vestito d’argento per quest’occasione. O calcolatrice
Perfetta – nulla ti sfugge. Non ti è possibile consegnare qualcosa,
Intatta? Devi per forza stampare un marchio rosso su ciascun pezzo?
Devi uccidere tutto quello che ti capita?
C’è una sola cosa che oggi desidero, e solo tu puoi darmela.
Sta in piedi presso la mia finestra, grande come il cielo.
Esala dalle mie coltri, freddo morto centro
Dove vite spezzate si congelano e si irrigidiscono in storia.
Non inviarla per posta, un pezzo alla volta.
Non lasciare che venga a me a voce: avrei compiuto sessant’anni
e sarei incapace di usarla.
Piuttosto, lascia cadere il velo, ………il velo, ………..il velo.
Se fosse la morte
Ne ammirerei la profonda gravità, l’imperituro sguardo,
E saprei infine che eri serio.
Sarebbe allora tutto più solenne, un vero compleanno.
Il coltello non si curverebbe, ma mi penetrerebbe
Puro e chiaro come il pianto d’un bimbo,
E l’universo mi scivolerebbe al fianco.
℘
L’ASPIRANTE
Prima di tutto ce li hai i requisiti?
Ce l’hai
Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia,
Un tirante o un uncino,
Seni di gomma, inguine di gomma,Rattoppi a qualcosa che manca? ah
No? e allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere.
Apri la mano.
Vuota? vuota. ma ecco una mano
Che la riempie, disposta
A porgere tazze di tè e sgominare emicranie,e a fare ogni cosa che gli dirai.
La vorresti sposare?
E’ garantita,
Ti tapperà gli occhi alla fine della vita
E del dolore.
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme.
Che te ne pare di questo vestito-
Un po’ rigido e nero, ma niente male.
Lo vorresti sposare?
E’ impermeabile, infrantumabile, abile
Contro il fuoco e imbombardabile.
Credi a me, ti ci farai sotterrare.
E adesso, scusa, ha vuota la testa.
Ho la cosa che fa per te.
Su,su, carina, esci fuori dal guscio.
Ecco, ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina bianca
Ma in venticinqu’anni d’argento,
D’oro in cinquanta, potrà diventare.
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
Sa parlare, parlare, parlare.
traduzione alternativa
LASPIRANTE
Prima di tutto ce li hai i requisiti?
ce l’hai
Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia,
Un tirante o un uncino,
Seni di gomma, inguine di gomma, Rattoppi a qualcosa che manca? Ah
No? E allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere.
Apri la mano.
Vuota? Vuota. Ma ecco una mano Che la riempie, disposta
A porgere tazze di tè e sgominare emicranie,
E a fare ogni cosa che gli dirai.
La vorresti sposare?
E’ garantita, Ti tapperà gli occhi alla fine della vita
E del dolore.
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme
Che te ne pare di questo vestito- E’ un po’ rigido e nero ma niente male.
Lo vorresti sposare?
E’ impermeabile, infrantumabile, abile
Contro il fuoco e imbombardabile.
Credi a me, ti ci farai sotterrare. E adesso, scusa, hai vuota la testa.
Ho la cosa che fa per te.
Su, su, carina, esci dal tuo guscio.
Ecco, ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina bianca Ma in venticinqu’anni d’argento,
D’oro in cinquanta, potrà diventare.
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
Sa parlare, parlare, parlare. E funziona, non ha una magagna.
Qua c’è un buco, che è una manna.
Qua un occhio, una vera visione.
Ragazzo mio, è l’ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?
℘
ZITELLA
e così questa particolare ragazza
in una cerimoniosa passeggiata d’aprile
col suo più recente pretendente
si trovò all’improvviso oltremodo sconvolta
dalla sfrenata babele degli uccelli
da quel mare di foglie.
in preda a questo tumulto, osservava
i gesti del suo innamorato che sbilanciavano l’aria
e il proprio passo vagante ineguale
in quel solitario rigoglio di felci e fiori.
giudicava i petali in scompiglio
e la stagione in generale, sciatta.
come desiderò allora l’inverno!-
scrupolosamente austero nel suo ordine
di bianco e nero
ghiaccio e rocce e ogni senso nei suoi limiti
e la gelida disciplina nel cuore
esatta come fiocco di neve.
ma ecco. un germogliare anormale abbastanza da mettere in scompiglio
le sue cinque regali facoltà-
un tradimento da non tollerare. si impazziscano pure
gli idioti nel manicomio primavera:
lei se ne tirò subito fuori.
e mise tutt’intorno alla sua casa
tale una barricata di spine e impedimenti
contro quella stagione sediziosa
che nessun uomo all’assalto poté sperare di infrangere
per anatemi, pugni o terrore
e nemmeno per amore.
℘
PAPÀ
Non servi, non servi
Non più, nera scarpa,
come un piede vi ho vissuto
Per trent’anni, gramo e bianco,
Trattenendo fiato e starnuto.
Papà, ho dovuto ucciderti,
Sei morto prima che avessi il tempo-
Pesante come marmo, otre pieno di Dio,
Orrenda statua con un alluce grigio,
Grosso come una foca di Frisco.
e la testa nell’Atlantico bizzarro
dove fiotta verde oliva sul blu
nelle acque della bella Nauset.
Pregavo per riaverti, un tempo.
Ach, du.
In lingua tedesca, nel paese polacco
spianato dal rullo compressore
di guerre, guerre, guerre.
Ma il nome del paese è comune.
I mio amico polacco dice
che ce n’è dozzine.
E così non ho mai saputo
dove piantasti il piede, la radice,
e di parlarti non mi è mai riuscito.
La lingua mi si attaccava al palato,
presa in trappola dal filo spinato.
Ich, ich, ich, ich,
e sempre mi bloccavo lì.
Ogni tedesco mi sembeava te
e la lingua era oscena,
una locomotiva, un treno
che mi portava via ciuff ciuff come un ebreo.
Un ebreo ad Auschwitz, Belsen, Dachau.
Ho cominciato a parlare da ebrea.
Potrei anche esserlo, ebrea.
Le nevi del Tirolo, la chiara birra di Vienna
Non sono così genuine e pure.
Con l’ava zingara e la mia strana sorte
e il mio mazzo di tarocchi, le mie carte,
un po’ ebrea lo sono forse.
Mi hai sempre fatto paura, tu,
con la tua Luftwaffe, il tuo ostrogoto.
E il tuo baffo ben curato
E l’occhio ariano, rifulgente blu.
Uomo-panzer, uomo-panzer, O Tu –
Non Dio ma una svastica
Così nera che nessun cielo vi trapela.
Tutte le donne adorano il fascista,
lo stivale in faccia, il brutale
cuore bruto, di un bruto come te.
Stai alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Biforcuto nel mento, piuttosto che nel pié
Ma non meno diabolico per questo, oh già
E non meno uomo nero che
ha morso il mio piccolo cuore rosso in due.
Avevo dieci anni ché sotterrarono te.
a venti cercai di morire
e tornare, tornare, tornare da te.
ho pensato anche le ossa sarebbero servite.
Ma mi tirarono fuori dal sacco,
e mi rincollarono pezzo su pezzo.
E allora capii cosa fare.
Mi fabbricai un modello di te,
un uomo in nero con un’aria da Meinkampf,
Un amante de bastone del torchio.
E pronunciai il mio sì, il mio sì.
Eccomi dunque alla fine, papà.
Il telefono nero è strappato,
sradicato, le voci non ci strisciano più.
Se ho ucciso un uomo, ho fatto il bis-
Il vampiro che si spacciò per te
e mi succhiò il sangue per un anno,
per sette, se proprio vuoi saperlo, va’!
Torna pure nella fossa, papà.
C’è un palo nel tuo cuoraccio nero
e ai paesani non sei mai piaciuto.
Ora ballano e ti pestano coi piedi.
Hanno sempre capito che eri tu.
Papà, papà, bastardo, sono finita.
℘
FEBBRE A 41°
Pura? Cosa vuol dire?Le lingue dell’inferno
Sono ottuse, ottuse come la tripla
Lingua dell’ottuso, grasso Cerbero
Che anela sulla porta. Incapace Di sanare leccandolo
l’infiammato Tendine, il peccato, il peccato.
Sfrigola l’esca da fuoco.L’indelebile puzza
Di candela soffocata ! Si srotolano, o amore,
i bassi fumi Da me come le sciarpe di Isadora,
ho terrore Che una mi accalappi, mi ancori alla ruota.
Questi gialli tetri fumi Si creano il proprio elemento.
Né si alzeranno, Ma intorno al globo si trascineranno
Asfissiando i vecchi e i mansueti,
Il gracile Bebè di serra nella sua mangiatoia,
L’orchidea mostruosa che appende
Nell’aria il suo pensile giardino,
Leopardo diabolico!
La radiazione l’ha ridotto bianco
E in un’ora l’ha ammazzato:
I corpi degli adulteri la sua peste rovina
Li smangia come la cenere di Hiroshima.
Il peccato. Il peccato.
Amore mio, ho passato tutta la notte annaspando,
Fra lenzuola grevi come il bacio d’un perverso.
Tre giorni. Tre notti. Limonata, brodo, acqua,
Acqua, fammi vomitare.
Per te o chiunque sono troppo pura.
il tuo corpo mi offende come il mondo offende Dio.
Io Sono lanterna -la mia testa una luna
Giapponese di carta, la mia pelle oro foglia
E’ carissima, molto delicata.
Non ti sbalordisce il mio calore?E la mia luce?
Sono un’immensa camelia che s’infuoca e va e viene,
vampa a vampa. Penso che sto sollevandomi,
Forse mi librerò-I grani di ardente metallo volano
e io, amore, io Sono una puravergine d’acetilene
Con una scorta di rose, Di baci, di cherubini,
Di tutto ciò che esprimono queste rosee cose.
Non tu, né quello Non lui, né quello
(Ogni mio io si perde, sgualdrinesco orpello)
℘
CONTUSIONE
Colore inonda la macchia, porpora cupo.
Tutto slavato è il resto del corpo,
Ha colore di perla.
In un anfratto di rupe
Risucchia il mare ossessivamente,
Un solo vuoto è perno di tutto il mare.
Non più grande che una mosca
Il marchio funesto
Striscia giù per il muro.
Il cuore si chiude,
Il mare cala,
Gli specchi sono schermati.
℘
I CORRIERI
Non è la mia. Non ti fidare.
Acido acetico in latta sigillata?
Non ti fidare. È roba adulterata.
Un anello d’oro con dentro il sole?
Bugie. Bugie e dolore.
Gelo su una foglia, l’immacolato
cratere, parlante e sfrigolante.
Tutto per sé sulla vetta di ognuna
di nove nere Alpi.
Un tumulto di specchi, e il mare che frantuma
il suo, grigio – o mia
stagione, amore.
℘
MONOLOGO DELLE 3 DEL MATTINO
È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno
℘
L’IMPICCATO
Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio.
Ai suoi azzurri volti mi rattrappii come un profeta del deserto
Le notti sgusciarono via come palpebre di lucertola:
Un mondo di vani giorni bianchi in una buca senza ombra.
Una noia d’avvoltoio mi appuntava a questo albero.
Farebbe anche lui come me, se lui fossi io.
℘
TEMPI NORMALI
Sfortunato l’eroe nato
In questa plaga dove il disco si è incantato
Dove i più bravi cuochi sono senza lavoro
E il girarrosto del sindaco va
Per conto suo, per inerzia.
Non si fa carriera a avventurarsi
Lancia in resta contro il drago,
Lui stesso rinsecchito in questi ultimi tempi
Per mancanza d’azione a uno spessore di foglia:
La storia ha battuto l’azzardo.
℘
LA LUNA E IL TASSO
Quest’è la luce della mente, fredda e planetaria.
Gli alberi della mente sono neri, la luce blu.
L’erba rovescia ai miei piedi le sue pene, come s’io fossi Dio,
pungendomi le caviglie e lamentando la sua umiltà.
Fumosi, spiritali vapori abitano questo luogo separato
da casa mia da una fila di lapidi.
Insomma, non riesco a vedere dove andremo a finire.
La luna non è una porta. È una faccia per diritto di nascita,
bianca come una nocca e terribilmente arrabbiata.
Si trascina dietro il mare come un delitto oscuro; è quieta
con lo squarcio ad O di completa disperazione. Io abito qui.
Due volte alla Domenica le campane fan trasalire il
cielo-
Otto grandi lingue che proclamano la Resurrezione.
Alla fine, con calma rintoccano i loro nomi.
L’albero di tasso punta in alto. Ha un profilo gotico.
Gli occhi si levano oltre lui e trovano la luna.
La luna è mia madre. Non è dolce come Maria.
Le sue vesti azzurre liberano piccoli pipistrelli e gufi.
Come vorrei credere nella tenerezza –
La faccia dell’effige, ingentilita dalle candele,
chini, proprio su di me, i dolci occhi.
Fu lunga la mia caduta. Nubi fioriscono
azzurre e mistiche sulla faccia delle stelle.
Nella chiesa, i santi saranno tutti azzurri,
fluttuanti sui loro piedi delicati sui freddi banchi,
le mani e i visi rigidi con santità.
La luna non vede nulla di ciò. È brulla e desolata.
Ed il messaggio dell’albero di tasso è oscurità –
oscurità e silenzio.
℘
PUNGIGLIONI
Ci sarà dentro davvero una regina?
Se c’è, è vecchia,le sue ali laceri scialli, il lungo corpo
spoglio del suo velluto-
povera e nuda e assai poco regale e perfino indecorosa.
Sono in una colonna
di donne alate non miracolose,
sguattere del miele.
Io non sono una sguattera,
anche se ho mangiato polvere per anni
e asciugato i piatti con i miei folti capelli.
E ho visto evaporare la mia stranezza,
rugiada azzurra da una pelle pericolosa.
Mi odieranno,
queste donne che sanno solo correre su e giù,
le cui novità sono il ciliegio in fiore, il trifoglio in fiore?
℘
PAPAVERI A LUGLIO
Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferita così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza,
senza colore.
℘
YEARS
Entrano come animali, dallo spazio all’esterno
dell’agrifoglio,
dove le punte non sono i pensieri verso cui mi volto,
come un Yogi,
ma sono verdezza, oscurità,
e così pure esse si congelano e rimangono.
Oh Dio, io non sono come te
nel tuo nero fatuo,
inzeppato di stelle, brillanti e vacui confetti.
L’eternità mi annoia,
non l’ho mai desiderata.
Quello che amo, invece,
è il pistone in movimento—
la mia anima ne muore.
E gli zoccoli dei cavalli,
il loro crudele fermento.
E tu, grande Stasi—
cosa c’è di davvero grande in te?
E’ una tigre quest’anno, questo ruggito alla porta?
È un Cristo,
l’orribile
boccone di Dio dentro di lui,
che muore dalla voglia di volare e farla finita?
Le bacche sono loro stesse, perfettamente impassibili.
Gli zoccoli non lo prenderanno,
nella distanza blu i pistoni sibilano.”
℘
PERSEO, IL TRIONFO DELL’ARGUZIA SULLA SOFFERENZA
Da sola, la testa ti mostra nell’atto prodigioso
di digerire ciò che solo i secoli digeriscono:
le gigantesche, massicce statue del dolore,
indissolubili al punto da crivellare le interiora
di una balena e dissanguarla fino al pallore
nel salso mare. Fu facile per Ercole ripulire
quelle stalle: sarebbero bastate le lacrime di un bimbo.
Ma chi si offrirebbe d’inghiottire il Laocoonte,
il Galata morente e le innumerevoli pietà
che incancreniscono alle pareti oscure di cappelle,
musei e sepolcri d’Europa? Tu.
Tu
che ai tuoi piedi mettesti non piombo, non chiodi,
ma ali, e con uno specchio per tenere in sicura prospettiva
la testa anguicrinita, riuscisti a trionfare sulla gorgonica smorfia
dell’umano tormento: uno sguardo che intorpidisce
le membra, non il lampo del basilisco, non il malocchio,
ma il cumulo dei gemiti estremi e dei lamenti
e delle grida e dei distici eroici che concludono i milioni
di tragedie messe in scena su queste tavole zuppe di sangue,
e ogni fitta di dolore segreto è un aspide sibilante
che pietrifica gli occhi, ogni catastrofe
di villaggio l’ondulata lunghezza di un cobra,
e il declino degli imperi la massiccia spira di un vasto
anaconda.
Immagina: il mondo
contratto a pugno in una testa di feto, scavata, incisa
di sofferenza dal concepimento in poi, ed eccotelo
in mano. Sabbia nell’occhio o pollice dolorante
strappano un soprassalto a chiunque, ma l’intero globo
che esprime dolore trasforma gli dèi, come i re, in pietre.
E queste pietre, spaccate e logorate, diventano massicce
e spargono la disperazione sulla faccia oscura
della terra.
Così tutta la creazione potrebbe infine irrigidirsi
nel rigor mortis, se non fosse per un ventre più grosso
ancora di quello che inghiotte la gioia.
Tu entri ora,
armato di piume per solleticare oltre che per volare
e di uno specchio di baraccone che muta la musa tragica
nella testa mozza di una bambola imbronciata, l’unica treccia,
malridotto serpente, che pende floscia e la bocca assurda
piegata in una lugubre smorfia. Dove sono
le membra classiche dell’ostinata Antigone?
Le rosse vesti regali di Fedra? le sofferenze abbagliate
di lacrime della dolce duchessa di Amalfi?
Scomparse
nella profonda convulsione che ti attanaglia la faccia, muscoli
e tendini contratti, vittorioso, mentre la cosmica
risata cancella le ferite riaperte e suppuranti
di chi soffre in eterno.
A te,
Perseo, la palma, e possa tu conservare
in equilibrio finché si fermi il tempo la bilancia celeste
che soppesa la nostra follia e la nostra saviezza.
℘
MARIONETTE
“Vede, Signora,
io sua figlia l’ho sempre amata.
Arrivavo ogni mattina con in tasca
pesci vivi, oroscopi e poesie.
Ma la sua bambina aveva nel corpo
lune insanguinate,
l’impronta infangata di uno stivale.
Il suo odio fermentava con la frutta in cantina.
Il suo odio cresceva e cresceva,
strangolava la casa
Vede, Signora,
sono nato in una valle di fantasmi.
Un paese di morti dove quando fa buio
le divise dei soldati marciano vuote lungo le strade.
E ogni notte la sua bionda bambina mi chiedeva di morire,
ogni notte lasciava un cadavere di cenere sul letto.
Un uomo ha in bocca la fame mai sazia dei lupi.
Ha sempre bisogno di mordere,
di succhiare il sapore selvatico.
E il mio sperma impazziva nei lombi,
la nutrivo ogni notte con le gocce dei miei sogni.
Non l’ho cercata, lo giuro.
Mi ha trovato seguendo un’orbita errata di stelle.
Nuotando e nuotando contro corrente.
Allargava i suoi occhi nel buio,
fiutava il mio odore col ventre.
La chiamai dalla riva.
Era un luccio gigante,
una cornucopia di luce nella marea del mattino.
Guizzò nell’aria: aveva un feto nell’iride dell’occhio,
si dibatteva con furia contro l’uncino del mio sesso.
Vede, signora,
ero un baco senza pupille
lei mi chiuse le palpebre con dita sudate,
mi avvolse con un filo di bava
nel suo bozzolo bianco.
E a casa la sua bambina bella cadeva fra i narcisi.
Si rompeva in mille pezzi,
pura e dolorosa come un grido.
Un crack fra le mie mani, così.
La vita le usciva da un fianco,
il sangue tornava alla terra.
Io non centro, lo giuro.
Fece tutto da sola.”
℘
ROVI
L’aria intera, il giorno intero
vortica dei richiami delle taccole. La stirpe neonata
delle taccole è iniziata
alla taccolità – quella complicata
corte di convenzioni
e precedenze, di sciovinismo e leggi.
Corte che è quasi una prigione – con sbarre
di gridi e di segnali. Carcerieri
sono tutte le altre taccole. Aprendomi una via
tra i grovigli dei rovi
ho pensato di nuovo: mi sentono?
I rovi sono un tale successo, le loro difese
così elaborate,
la loro estensione così intenzionale, sono svegli?
Certo un nimbo di dolore e di piacere
siede sulla loro nuda corona,
la loro offerta sessuale. Certo non sono solo insensibili,
un vano andare a tentoni. E poi perché no?
Non è lo stesso per le cellule del mio sangue?
Le mie cellule cerebrali forse temono o sentono
il bisturi o l’incidente?
Anch’esse incoronano una pianta
di straordinaria insensibilità. E le taccole
si danno segretamente da fare per essere taccole
come se fossero semi nella terra.
L’intera claque è un’ottenebrata religione
intorno alla sintassi e al vocabolario divini
di una muta cellula, che non sa chi siamo
e neppure che siamo qui,
inimminenti come un qualsiasi fiore di rovo.
℘
IL COLOSSO
non riuscirò mai a ricostruirti completamente,
rattoppato, incollato e fatto ben combaciare,
ragli di mulo, grugniti di porco, e schiamazzi osceni
provengono dalle tue nobili labbra.
E’ peggio di un cortile
forse consideri te stesso un oracolo,
portavoce dei morti, o di qualcuno degli dei.
sono trent’anni che fatico
per dragare il fango della tua gola.
non sono diventata più saggia.
arrampicandomi su piccole scale con secchi di colla e di lisolo
striscio come una formica a lutto
sugli acri coperti di erbacce della tua fronte
per accomodare le enormi lastre del cranio e
ripulire i vuoti bianchi tumuli degli occhi.
un cielo azzurro proveniente dall’orestiade
si inarca su di noi. o padre, da solo
sei essenziale e storico come il foro romano.
apro il sacchetto del pranzo su una collina di neri cipressi.
le tue ossa flautate e i capelli d’acanto sono sparsi
fino alla linea dell’orizzonte nella loro antica anarchia.
ci vorrebbe più d’un fulmine
per creare un tale disastro.
la notte, mi accovaccio nella cornucopia
del tuo orecchio sinistro, lontano dal vento,
contando le stelle rosse e quelle color prugna.
il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua.
le mie ore sono sposate con l’ombra.
non sto più ad ascoltare il raspare di una chiglia
sulle vuote pietre dell’approdo.
℘
“Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più…”.