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<Gobliiinn!!! Jupuh!…> a gran voce, le chiavi nella toppa, fuori.
Un miagolio strozzato dal salto, giunse dalla camera.
Goblin comparve sulla linea fantasma tra sala e vano dietro, stirando le zampe anteriori scivolando in avanti. Ricompose seduto a guardarla. Sfinge.
Perché?
Non le andava incontro.
Era lei, non un’estranea da annusare.
Era lei! Era lei…certo…
Come una danza un passo dietro, girò mezza, allungò braccio e collo, ad afferrare poi estrarre le chiavi dall’ottone sella serratura.
La scossa la sbalzò facendola urlare.
Goblin non si mosse.
Il panico infilò lunghi canini nella carne all’inguine, costringendola a emettere un guaito. Aria! Fame d’aria! Andò in cucina, su arti di legno. Tornò con un panno avvolto alla mano, in bocca una cava, ghiaia e ferro, ripeté il gesto riuscendo a riappropriarsi delle chiavi e a chiudersi dentro.
Stupida. Ebete. Forse sarebbe partita con Bsideocchigrigi, si sarebbero dati del tu. L’avrebbe chiamata Giulia. Lo avrebbe adorato.
Aveva paura di un fottutissimo mazzo di chiavi…e del suo gatto?!
“ma che diavolo…?!- tintinnio -“
In affanno – neanche dopo la maratona di New York – s’accasciò a terra, gambe aperte a squadra, le scapole puntute alla porta, braccia abbandonate ai fianchi palmi su.
Goblin seguitava a osservarla, attento, tranquillo nonostante tutto. Dalla posizione in cui era mirava il muso baffuto allo sguardo di lei, con colpetti percettibili socchiudendo a tratti le palpebre. Sapeva. O semplicemente attendeva la prima mossa.
Cosa c’era di storto? Per un istante l’idea di essere protagonista di un film, uno stupido film, le parve plausibile. Del genere horror.
“adesso cosa?! entrano gli alieni? la signora scopre che il gatto è una reincarnazione? seiunadeficiente, muoviti! fa qualcosa! devi tornare in redazione!”
Lasciò che il tempo la ignorasse, sul fresco marmo, ancora un po’. Distese l’involucro di pelle e sensi. Si addormentò.
Londra – di legno, ogni cosa legno, Carnaby street legno, grandi assi – legno sotto i piedi, palazzi legno, legno le botteghe, coi vecchi fuochi, i tavoli le panche – il punch caldo, la sera – ragazze su pattini – gonnelle e calzettoni – la folla, poi scompare, il corteo per la festa, il giorno, all’angolo il forno. È notte qui, l’ombra. Londra. Il big bang fermo. Londra dorme. 1918.
“…mmmmh…jupu…” riemerse dal sonno, ciglia sigillate dal rimmel, la certezza che fosse passato il pericolo, quale che fosse. Qualcosa, aveva preso il largo.
Una lingua ruvida increspava la pelle del mento, diffondendo il suo ronron insieme all’odore buono della cute. Odore di bimbomicio. La leccava con pazienza.
Alzò il braccio sopra di lui, toccò la spina dorsale sotto il manto, lui le rotolò addosso come un cucciolo nella pancia della mamma. Caldo. Riconoscente. Familiare.
Cosa fare? Occhio traverso, orecchio e capelli ancora tutt’uno col pavimento, si vide in quella posizione fetale.
– Cambiarsi e andare – Un appiglio di voglia…? – Interrotto il flusso della giornata per qualcosa che ora appariva sogno o incubo inesistente, ogni brandello di energia tirava i remi in barca, lasciandola naufragare. – Rifare la strada – Cupo un pensiero così semplice.
Combattuta tra il trastullo del niente e il dovere che tirava dai piedi, infine cedette: levò rizzandosi sul busto.
<Sono una scema, vero?> sotto la sua mano vibrava.
Nessun diniego, Goblin succhiava la dose di coccole godendo come Dio comanda. E lei di rimando.
A questo ‘servono’ i gatti, no? Assorbono e rimandano energia pulita.
Respirò a pieni polmoni, saccheggiando l’aria.
Scattò in piedi.
Jeans maglietta calze mutandine reggiseno, giù, briciole di Pollicino da una stanza all’altra. Non era tempo per i dettami dell’ordine. Sgusciò in bagno.
Dalla cucina il rumore di croccantini a ricadere nella plastica dura, color ciliegia, rassicurante, mentre l’acqua davanti a sé già formava arabeschi sui cristalli.
“…ahaaaa…ora mi giro lentamente…allo specchio: tracce!…e un dito che passa a lasciare il suo buongiorno privato!”
così: tra divertimento e sconcerto.
Capitava. A lei più che ad altri.
Ah, benedetta fantasia, tanto le dava da mangiare, quanto le dava da temere. Se non altro, il ridicolo.
Con questo pensiero schiuse la mente, inghiottita dalla nube blu della doccia. Blu blu che più blu solo il mare.
“perché quel mistero? dove…? saremo in pericolo??…in pericolo insieme…mi proteggerà…perché …ha scelto me!…perché sono piccola, e lui lo sa…”
rotolava neve a valle, via via valanga a schiantarsi sulla casetta piccina e indifesa. Lasciandola intatta, sempre. E una. E due. E tre più grossa. E ohooo quattro. E cinque gigante! Valanghe, valanghe a iosa.
Il caos farfugliava abitudini, fuori da lì.
Improvviso fu il ritorno in sé, vedersi dall’alto, non curò lo straniamento, confidenziale, che seguitava a condurla là. Ogni cosa quel giorno seminava indizi di un rompicapo, vi sguazzava come raganella nel lago: l’agitazione ingiustificata, la riunione, il comportamento di Goblin, la scossa, il sogno, Londra, la percezione di non essere sola, in bagno; il suo bagno blu: mosaici smeraldo, una barriera corallina nascosta al sole. Il corbezzolo sul davanzale. L’odore di mandorlo.
Pregna, attraversò il disimpegno che la separava dalla camera, passando ad affacciarsi in cucina, registrando la ciotola ripulita, un sonno sazio “da qualche parte…”
Piedi nudi ancora bagnati, cauta. Amava lasciare orme.
“Questa andrà bene” acciuffò la gonna quasi temesse vederla fuggire via su gambe di stoffa, poi la camicia, con altrettanta risolutezza, irriguardosa, a dissimulare ansia. Con velocità e finta approssimazione finì il rito della vestizione.
“..’azz! tardi! Al solito, non impari!” rimproverò alla stanza, che non rispose.
Dopo gli accessori da look collaudato, infilò gli stivali. Il caldo del mezzogiorno ormai scemato, era chiaro invito a osare, al suo posto la frescura preserale tipica della stagione dei fiori, ne sottolineava la forza acclamatrice.
L’auto odorava gelsomino, questa volta clemente, ingoiò in silenzio lei, e tutta la massa dei suoi capelli umidi.
Avviò il motore. Fissò il parabrezza. Non aveva idea di cosa avrebbe comportato la chiusura del cerchio, ma le piaceva, oh se le piaceva…improvvisare, impersonare.
Avrebbe condotto l’auto fino al cortile sul retro, scorrendo il mare, le vele, le buganvillee. Sarebbe arrivata da lui, avrebbe parlato. La donna avrebbe parlato, mettendo in fila sillabe, componendo la melodia giusta, e lei, ubbidiente, avrebbe eseguito muovendo labbra e viso, fiduciosa.
<Giulia> dal nulla, la voce indossò le vesti di sua nonna.
Nonna Angela, 103 anni ancora in piedi. Raggrinzita nelle pose, il volto a tradire il tempo come uno smacco. Ora, quel viso tanto amato la interrogava.
<Nonna!> il sorriso le allagò le guance.
<Giulia, sei a casa…> flebile, un preambolo chiaro come cielo di montagna. Attese.
<Oh sì…non farci caso, sono venuta a vedere Goblin, ero preoccupata, ma tutto bene. Tu piuttosto, dove stai andando? Ti do un passaggio.> disse d’un fiato, più per dovere e gentilezza che convinzione, già conoscendo la risposta.
<Noo…eh! niente…scendevo…; sei stanca…torni a lavoro? Andrà bene vedrai sei forte, intelligente. Vedrai. Chiediti se sei felice, quando la paura tira le dita.>
Abituata ai discorsi visionari di sua nonna, non si scompose. Contenevano verità, e tutto l’amore dell’universo. Giulia era convinta che quella donna, che un Dio invisibile le aveva assegnato, fosse l’incarnazione esatta dell’amore sulla terra, per gli esseri viventi.
<Sì nonna, non preoccuparti, farò quel che mi sento, e andrà tutto bene, come dici tu. Domattina passo a portarti il latte. Ora vado, prima che faccia buio, non voglio far tardi stasera. Ciao nonna…>
schiaffeggiando un moscerino invisibile con il dorso della mano, un pensiero molesto “non serve…” la congedò:
<Ciao…>
Niente pizzi e merletti.
La vecchina stette immobile, incollata alla visione della nipote che sfumava. Sul viso l’espressione immutata, sino a che l’auto non ebbe svoltato, inghiottita da quel luogo invisibile che ogni angolo cela. Allora, com’era comparsa, in un balenio scomparve, infilando il viale verso casa, con il rocchetto di filo grigio ancora in pugno.
Non le aveva detto niente, Giulia. Nulla. Eppure avrebbe tratto sollievo dall’umido scintillio di quegli occhi, sua nonna le avrebbe dato la giusta chiave. Le avrebbe mostrato la strada nel bosco. Lei, avrebbe aperto le casseforti nascoste dai rovi. Ciò che poteva esserle sfuggito di quegli ultimi accadimenti, sarebbe riapparso sotto la luce migliore: et voila!
Non ne aveva avuto modo, la fretta è un cane con la rabbia.
Ora di merenda: brontolò il groviglio di organi interni, a quello preposti.
Reclamavano la coccola quotidiana, ma adesso non poteva dar retta ai suoi bisogni primari, non c’era tempo, e poi… era fame?
Guidò; i capelli frustini impazziti colpivano ai fianchi l’aria, che dai finestrini abboccava in vortici alle spalle, sulla testa.
Asciugavano come piaceva a lei, indomiti.
Avrebbe cenato con un gelato, ecco! Giusto gratificarsi di una giornata tanto pesante: sì! Un bel gelato da Tommy.
A memoria di sensi il pensiero tinse di verde pistacchio, mentre un cielo spettatore caramellava a Ovest, e Santana pizzicava corde, solo per lei.
to be continued…
Angela Fragiacomo
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